Translate

lunedì 30 aprile 2018

CUOCHI ECCELSI E FAMA GASTRONOMICA DELL'ANTICA SIRACUSA

Cucina tradizionale del contadino siracusa.
La fotografia è tratta dall'opera di Antonino Uccello
"Del mangiar siracusano", edita nel 1969
dall'Ente Provinciale per il Turismo di Siracusa
 
Il 27 settembre del 1971, Antonio Uccello inaugurò la sua Casa Museo a Palazzolo Acreide, istituzione che mise in mostra gli oggetti provenienti dal mondo contadino in oltre trent'anni di ricerche.
Al gennaio del 1969 risale invece una pubblicazione che lo stesso ricercatore curò per conto dell'Ente Provinciale per il Turismo di Siracusa.
L'opera, intitolata "Del mangiar siracusano, itinerari gastronomico-letterari e anche archeologici", è una singolare antologia di testi dedicati all'argomento, curati da vari autori: da Giuseppe Fava a Beppe Fazio, da Maria De Orchi a Laura Di Falco, da Giovanna Finocchiaro Chimirri a Corrado Sofia, da Margaret Guido a Edvige Spagna.
Ad Ottavio Garana si deve questo capitoletto dedicato ai "Poeti gastronomi e aromatarii nella Siracusa antica":

"Siracusa è famosa per essere stata con Teocrito la culla della poesia bucolica.
Meno nota però è un'altra circostanza, quella di essere stata la patria di quei poeti che per primi fecero dell'arte gastronomica argomento di poesia.
Siracusani furono Miteco, che con il suo 'Cuciniere siciliano' insegnava alla Grecia l'arte di condire le vivande all'usanza di Sicilia; Terpsione che scrisse la 'Gastronomia' e fu maestro di un altro famoso gastronomo, Archestrato di Gela, il quale con il suo poema dedicato alla 'Giocondità' si mostra tanto amante della buona tavola.
In questa schiera si annoverano altresì i due Eraclidi e Calmo.
Per merito di costoro, vissuti ai tempi di Dionigi (IV secolo a.C.) presso i classici greci e latini divennero rinomati i conviti, le mense, i condimenti siciliani.
Lo scrittore Ateneo nell'opera 'Dipnosofisti' ( sofisti a banchetto ) riporta alcuni frammenti del 'siracusano o gelese' Achestrato e loda i cuochi siciliani.
Platone nel III dialogo - 'De Repubblica' - raccomanda ai giovani la temperanza: che si astengano dalle siracusane mense.
Cicerone nelle 'Tusculane' ricorda le 'imbandigioni siracusane'.
Per l'epoca cristiano-bizantina si hanno solo un paio di testimonianze di persone che esercitavano mestieri attinenti all'alimentazione, perché allora il genere di lavoro del defunto assai raramente era ricordato nelle iscrizioni della Sicilia.
L'Orsi trovò nelle catacombe di Vigna Cassia l'epigrafe greca di una certa Vittoria 'Kondeitaria', proprietaria forse di una spezieria o bottega di aromi.
Gli aromatarii avevano spazi riservati nei mercati dove vendevano varie specie di aromi, usati come incensi rituali e, più largamente, come droghe che rendevano odorose le vivande e i vini.
Di queste erba aromatiche le più ricercate erano: la menta, la cannella, il finocchio, la salvia, il timo da con confondere con la santoreggia, donde il verso del poeta veronese, contemporaneo di Virgilio, Emilio Macro, 'se manca il timo, mettere in cambio la santoreggia o timbra'.
'Conditarii' erano altresì detti coloro che gestivano le taverne, dov'era possibile trovare cibi già cotti e conditi come si usa oggi nelle tavole calde.
Posteriore di qualche secolo è il ricordo latino di certo Fortunato 'pistore' rinvenuto dal Sovraintendente L.Bernabò Brea in un cimitero sopra terra dell'estremità meridionale delle catacombe di San Giovanni, databile ai secoli VI-VII dietro Cristo.
Il collegio dei pistori aveva per insegna il moggio.

Cotognata su cesto di culmi,
opera citata
 Pistore però è nome generico e indicava non solo il mugnaio ma anche il fornaio e perfino il pasticcere - pistor dulciarius - colui cioè che manipolava focacce, ciambelle e torte.
Famoso è il verso di Marziale degli 'Epigrammi' anche perché accenna al timo dei monti Iblei:
 
'mandai focacce fragranti di timo ibleo...'"




giovedì 26 aprile 2018

BLUTEC, OVVERO LA CHINA DISCENDENTE DI TERMINI IMERESE

Manifestazione di ex operai Fiat dinanzi
lo stabilimento Blutec a Termini Imerese.
Le fotografie sono di ReportageSicilia
Speranze ed aspettative erano rinate nel dicembre del 2014.
Con l'impegno di assumere progressivamente - entro la fine del 2018 - i 700 dipendenti della ex Fiat, la Blutec ( un'azienda satellite di Fca) chiuse con lo Stato un accordo per investire 96 milioni di euro nella fabbrica di Termini Imerese, 71 dei quali messi sul piatto da Invitalia, cioè dal ministero dell'Economia.
Oggi quell'impegno di Blutec non solo è in gran parte disatteso - l'azienda ha assorbito appena 113 lavoratori - ma la stessa Invitalia contesta i criteri di spesa di una prima tranche di 21 milioni di euro.


I rendiconti prodotti da Blutec sono stati giudicati insufficienti e quella somma dovrà presto essere restituita allo Stato, con buona pace degli annunciati progetti circa la produzione in larga scala di motori elettrici.
Così, nei giorni scorsi dinanzi la fabbrica di Termini Imerese si è tornati alle scene degli anni passati, quando il disimpegno della Fiat provocò picchetti e manifestazioni di protesta.
L'inizio del rapporto tra l'azienda piemontese e quest'area industriale del palermitano risale al settembre del 1967.
All'epoca, la Sofis - la Società per il Finanziamento dello Sviluppo in Sicilia - concesse alla Fiat 6 miliardi di lire per la nascita di una fabbrica che avrebbe dovuto disporre anche di un centro di formazione per operai meccanici.


L'impianto - presentato in progetto a Bari nel 1968, durante la Fiera del Levante - entrò in funzione due anni dopo.
Da allora, la Fiat di Termini Imerese ha rappresentato un polmone occupazione fondamentale per l'economia del comprensorio, precludendo pure la nascita di altre possibilità di sviluppo a livello locale.


Oggi la vicenda Blutec rappresenta la china discendente di quel progetto, costringendo alla cassa integrazione centinaia di operai anagraficamente vicini alla soglia di una pensione che forse non arriverà mai.  

domenica 22 aprile 2018

IL TRAMONTO SULLA COSTA DI FRANCESCO SCARPINATO


FRANCESCO SCARPINATO, "Tramonto sulla costa", 1890-1893

giovedì 19 aprile 2018

PIAZZA ARMERINA, LUOGO DEL VERDE E DELLE CHIESE

Edilizia religiosa a Piazza Armerina.
La fotografia è di ReportageSicilia
Si va a Piazza Armerina per vedere i mosaici della Villa del Casale; e si finiscono per ignorare le tante chiese - secondo alcuni cento che abbelliscono un cittadina che pure può contare su un territorio che un viaggiatore inglese definì come il più ricco da lui mai visto "per le tonalità di verde".
L'abbondanza di edifici religiosi storici a Piazza Armerina, al cui interno si conservano fastosi esempi di oreficeria ecclesiastica,  venne così spiegata da Giuseppe Bellafiore:

"Favorita dalla fertilità della irrigua campagna circostante e dalla situazione strategica del unitissimo castello - si legge in "La civiltà artistica della Sicilia" ( Le Monnier, 1963 ) - si sviluppò rapidamente.
Fu quasi sempre città demaniale e i re spagnoli le concessero numerosi privilegi.
Il baronaggio e il potere ecclesiastico vi prosperarono, dando il volto attuale alla città, dove palazzi, chiese e conventi emergono su una bassa edilizia..."



mercoledì 18 aprile 2018

L'INSTRINGIBILE CERCHIO DELLO STATO ATTORNO AL BANDITO GIULIANO

Battute di polizia e carabinieri
nelle campagne del palermitano
alla ricerca di Salvatore Giuliano
e dei componenti della sua banda.
Le fotografie riproposte da ReportageSicilia
illustrarono un articolo di Tommaso Besozzi
pubblicato nel maggio del 1949 da "l'Europeo"
Nel 1949, la caccia a Salvatore Giuliano impiegò in Sicilia circa 6.000 fra carabinieri e poliziotti: un numero insufficiente rispetto all'ampiezza del territorio dove Giuliano e la sua banda trovavano rifugio e coperture.
Il campo di battaglia sul quale i banditi potevano muoversi con rapidità - il comprensorio fra MontelepreMonreale, San Giuseppe Jato, Partinico ed Alcamo - è una zona aspra e montagnosa; all'epoca era attraversata da poche e solitarie strade, esposte al rischio di agguati e scontri armati.



Partendo da queste osservazioni sul contesto ambientale favorevole a Giuliano ed ai suoi complici, Tommaso Besozzi esaminò così il 20 maggio del 1949 la situazione delle ricerche del bandito sulle pagine del settimanale "l'Europeo":

"Si capirà che 6.000 poliziotti - si legge in un reportage intitolato "Perché il bandito Giuliano è ancora vivo"non bastano per esplorare, metro per metro, un territorio che misura oltre cinquemila chilometri quadrati di superfice.
Tra una grotta e l'altra, il più delle volte, corrono cunicoli e passaggi segreti che disegnano un'intricata rete sotterranea.
Qualcuno di quei corridoi fora la roccia da un versante all'altro del monte.
Non ci sono alberi di alto fusto; ma, nelle pendici più basse, una fitta boscaglia e più in alto, una difesa quasi ininterrotta di cespugli spinosi e di rovi che valgono molto più dei reticolati e dei cavalli di frisia.
Ora, neppure le carte militari al 25.000 possono scendere ad una così precisa minuzia di particolari da indicare le grotte, le fenditure della roccia, i passaggi segreti.
La zona montagnosa che è alle spalle di Montelepre non ha rubato troppo tempo al cartografo: si direbbe un deserto.
La polizia deve muoversi con estrema cautela su quel terreno dove, ad ogni passo, si può cadere in un trabocchetto; ed i pastori non sono certo disposti a far da guida ai pattuglioni.
Dall'altra parte, gli uomini di Giuliano hanno una conoscenza topografica perfetta di tutta la zona.



Le vedette dislocate nelle posizioni più elevate possono dominare tutti i passaggi praticabili, entro un raggio di molti chilometri.
Sono in grado di scorgere le pattuglie di rastrellamento, le seguono col binocolo, ne segnalano la forza e la direzione.
I briganti attaccano e scompaiono, come se la montagna li avesse inghiottiti.
I poliziotti debbono perlustrare ogni cespuglio, calarsi nelle forre, esplorare ogni grotta; ed è umano che lo facciano con prudente circospezione.
In particolare, nulla è più inesatto dell'espressione che tanto spesso capita di leggere, 'il cerchio si stringe attorno alla banda di Giuliano'.
Non esiste nessun cerchio.
Se si volesse davvero circondare la zona di Montelepre e far avanzare i poliziotti, in catena, in vista l'uno dell'altro, occorrerebbero almeno 25.000 uomini: non basterebbero, cioè, gli effettivi di due divisioni sul piede di guerra..."



Nell'articolo - nel pieno rispetto della verità dei fatti - Tommaso Besozzi non nascose di segnalare il carattere inutilmente repressivo degli atteggiamenti delle forze dell'ordine nei confronti della popolazione:

"A Montelepre, per impiegare che i banditi venissero riforniti di viveri, sono stati chiusi d'autorità, e per molti giorni, tutti i negozi di alimentari: donne e bambini hanno sofferto la fame.
Per attingere alla fontana, le donne dovevano dichiarare il numero dei familiari ( e dimostralo ) perché fosse loro concesso di prendere la quantità d'acqua ritenuta sufficiente.
Era un controllo inutile ed odioso.
Un poliziotto indicava col dito, a ciascuna, fino a che livello potesse riempire il secchio.
Chi conosce questa parte della Sicilia può facilmente immaginarsi le liti.
La faccenda andava per le lunghe; l'ora di erogazione finiva; ed i più restavano con il secchio asciutto.


Una postazione di carabinieri
nella zona di Montelepre
L'omertà era una muraglia contro la quale si cozzava invano.
I complici dei briganti, gli 'ausiliari', i segnalatori, erano moltissimi; ma era estremante raro che si riuscisse a raggiungere le prove.
Furono fatte retate in grande stile; le carceri di Palermo, di Trapani, di Termini Imerese si riempirono di arrestati.
Fu ripristinato il confino di polizia e centinaia di persone salparono verso le isole.


Controlli in strada
alla ricerca di
fiancheggiatori della banda Giuliano
Tutto questo era, forse, necessario: tutti gli inquisiti erano forse davvero meritevoli di carceri e confino; ma il metodo con il quale, spesso, venivano condotte le operazioni di polizia avevano il torto di rassomigliare troppo alla spedizione punitiva, alla rappresaglia.
Nei paesi e nei villaggi del monteleprino nessuno poteva sopportare che i poliziotti, dovendo compiere una perquisizione, sfondassero le porte col calcio dei moschetti, rovesciassero i mobili, ordinassero alle donne di uscire in camicia dal letto per frigare nei pagliericci.
Queste cose, in Sicilia, si pagano care.


Sopra e sotto,
la stanza di Salvatore Giuliano
nell'abitazione di famiglia a Montelepre



In un paese dove l'agente di pubblica sicurezza si chiama ancora sbirro, sarebbe bastato molto meno per far pendere la bilancia dall'altra parte.
E così, ora sono tutti per Giuliano.
E' giusto, tuttavia, tener presente lo stato d'animo del carabiniere che sa di andare allo sbaraglio: da ogni angolo di strada, da ogni finestra può partire la raffica che lo colpisce a tradimento.
In cinque anni di lotta, più di ottanta sono caduti a quel modo, vittime di un'imboscata.
I complici, forse gli stessi assassini sono nascosti qui, ma l'omertà li protegge.
Il carabiniere si butta contro quella muraglia; spera di far breccia, di arrivare a mettere le mani sul brigante che poco fa ha scaricato il mitra contro la pattuglia che tornava in caserma.
Dovrà chiedere permesso, prima di entrare?
La posta è la più grossa che si possa rischiare; il gioco ha una regola sola; vince chi spara per primo.
C'è anche un altro fatto; l'improvviso rigore e il richiamo al rispetto della legge, in un paese dove si è sempre accettata una certa elasticità di interpretazione, vengono facilmente scambiati per prepotenza..."

Quattordici mesi dopo questo articolo, Salvatore Giuliano sarebbe stato ucciso nell'ambigua notte di Castelvetrano.
Per eliminare il bandito di Montelepre - non nelle impervie montagne palermitane, ma in una camera da letto di un'abitazione presidiata ad hoc dai carabinieri - si fece ricorso ad un sicario sulla cui identità ancor oggi si confrontano studiosi e storici dei tanti "misteri italiani".
Fra questi episodi oscuri, figura anche quello del contesto della cattura di Salvatore Riina, il boss corleonese che lo Stato trovò occasione di fermare dopo 23 anni di latitanza e solo pochi mesi dopo l'eclatante delitto di Salvo Lima e le stragi Falcone e Borsellino.






giovedì 12 aprile 2018

L'"EVENTO MEMORABILE" DI CLAUDIA CARDINALE A PARTINICO

Claudia Cardinale a Partinico
durante la lavorazione del film di Damiano Damiani
"Il giorno della civetta".
Le immagini riproposte da ReportageSicilia
portano la firma del fotografo Giorgio Lotti
e furono pubblicate dal settimanale "Epoca"
il 12 novembre del 1967 
Dopo avere completato le prime riprese del film all'interno del carcere palermitano dell'Ucciardone, Claudia Cardinale girò a Partinico i primi ciak de "Il giorno della civetta" la mattina del 12 settembre del 1967.
Per l'attrice di origini siciliane - i nonni paterni fecero parte della comunità trapanese immigrata a La Goulette, il quartiere italiano di Tunisi - il film di Damiano Damiani costituì l'occasione per accrescere le proprie frequentazioni con ruoli e set dell'Isola ( da "L'audace colpo dei soliti ignoti" a "Il bell'Antonio", dal "Gattopardo" a "Vento d'estate" ).




Secondo Damiano Damiani, la cittadina palermitana avrebbe fornito lo sfondo siciliano migliore alla drammatica vicenda descritta dal romanzo di Leonardo Sciascia.
Con i suoi rimandi alle vicende della banda Giuliano e le opere di denuncia di Danilo Dolci, quest'angolo dell'Isola sembrò a Damiani il luogo ideale per raccontare una storia di mafia.
L'accoglienza alla Cardinale - interprete di Rosa Nicolosi - riservò all'attrice siculo-tunisina attenzioni affettuose e morbosa curiosità.



Le cronache del tempo seguirono con pari curiosità la presenza della Cardinale in un angolo di Sicilia considerato fra i più arcaici per atteggiamenti mentali e assuefazione alla violenza ed alla miseria dei suoi abitanti. 
Così, si spiega l'origine del reportage fotografico pubblicato dal settimanale "Epoca" il 12 novembre del 1967.
Il fotografo Giorgio Lotti realizzò le immagini della Cardinale con i costumi di scena, in parte tra le strade e tra la folla di Partinico; in altri scatti, l'attrice si mette in posa tra le pale di fico d'india appena recise o accanto ad un venditore ambulante di pesce.



Nelle didascalie che accompagnarono quelle fotografie non manca qualche riferimento alla realtà di Partinico del tempo.
In una di queste, ad esempio, si legge:

"'Questo è il più moderno dei personaggi di donne siciliane che ho finora interpretato', dice Claudia Cardinale.
Ma la modernità della vedova Rosa Nicolosi riguarda soltanto il suo stato d'animo, la disperata volontà di affrancarsi da un ambiente che è rimasto povero e tradizionalista.




Tuttora, a Partinico e nei dintorni, le case sono prive di servizi igienici, i picciotti vanno in giro scalzi per le strade, i pescivendoli ambulanti offrono la loro merce alla buona e i contadini si recano al lavoro a dorso di mulo.
La presenza di un'attrice bella e famosa come Claudia Cardinale, che recita la parte di una donna del luogo, resterà un evento memorabile per gli abitanti"

domenica 8 aprile 2018

L'AUDACE CORSA SUL MARE DELLA SCIARA DEL FUOCO

Sci d'acqua ai piedi della "sciara del fuoco", a Stromboli.
L'immagine venne pubblicata nel luglio del 1966
dalla rivista dell'ENIT "L'Italia"

Chissà se all'epoca della fotografia riproposta da ReportageSicilia vigesse già a Stromboli il divieto di navigazione, ancoraggio e pesca lungo la costa della "sciara del fuoco".
Di certo, l'uomo immortalato nell'immagine pubblicata nel luglio del 1966 dalla rivista dell'ENIT "L'Italia" avrà conservato a lungo memoria della sua passeggiata sul mare in cui si specchia il versante più inquieto dell'isola: quello da dove - si legge nella "Guida Rossa" della Sicilia del TCI del 1968 - "lo spettacolo delle eruzioni è meraviglioso, specie di notte e durante i periodi di molta attività e di eruzioni di blocchi o colate incandescenti"

giovedì 5 aprile 2018

IL MARESCIALLO LETTERATO E GLI ALTRI CADUTI DELL'IMPUNITA STRAGE DI CIACULLI

Le immagini riproposte da ReportageSicilia
illustrarono un articolo di Giuseppe Fava dedicato
alla strage di Ciaculli, a Palermo.
Il reportage del giornalista ucciso dalla mafia nel 1984
venne pubblicato dalla rivista "Tempo" nel luglio del 1963
Giornalista e scrittore capace di raccontare la verità dei fatti scrutando le debolezze umane dei suoi protagonisti, Giuseppe Fava scrisse sulle pagine di "Tempo" un mirabile resoconto della strage di Ciaculli, avvenuta a Palermo il 30 giugno del 1963.
L'articolo venne pubblicato 13 giorni dopo l'eccidio di quattro carabinieri, un poliziotto e due militari del Genio dell'Esercito, con il titolo "I delitti della mafia resteranno ancora impuniti?".
Nel suo reportage, Fava ricostruì la dinamica della tragica esplosione della "Giulietta", giustamente notando - a caldo - che l'episodio non era da considerarsi un attentato contro le forze dell'ordine, quanto piuttosto un fallito tentativo di colpire un esponente della famiglia dei Greco. 
Una gomma bucata costrinse i guastatori a fermare la vettura anzitempo, e questa fortuita circostanza cambiò il corso drammatico degli eventi.
A Palermo, era quello il periodo delle "Giuliette-bomba"; e proprio una di queste micidiali auto esplosive, poche ore prima la strage di Ciaculli, aveva ucciso a Villabate il commerciante Giuseppe Di Peri e due fornai, Giuseppe Tesauro e Giuseppe Castello.
Ancor oggi, i responsabili materiali della morte di Mauro Malausa, Eugenio Altomare, Calogero Vaccaro, Marino Fardelli, Silvio Corrao, Pasquale Nuccio e Giorgio Ciacci sono impuniti, come si chiedeva l'articolo di "Tempo".
Nessun esponente di Cosa Nostra è stato mai giudicato in un aula giudiziaria per quell'eccidio, che ebbe il solo merito di ricordare all'Italia - al di là del folklore alimentato sino allora dal fenomeno - il volto violento ed eversivo della mafia.



Il clamore suscitato dall'attentato di Ciaculli affrettò l'istituzione della Commissione Parlamentare d'Inchiesta sulla mafia e indusse il governo a mandare al confino boss e gregari di Cosa Nostra: provvedimenti e misure che, pur senza risolvere il fenomeno della mafia, hanno rappresentato la certificazione dell'ingerenza delle cosche nella vita civile siciliana ed italiana.
La cronaca di Giuseppe Fava di quella strage ricostruisce con analitica visione dei fatti il dramma umano rappresentato dall'esplosione della "Giulietta".
Ne emerge così un dolente ma non retorico ritratto privato delle sette vittime, a cominciare dal maresciallo di polizia Silvio Corrao: un uomo "malinconico" e con il rammarico - nel ruolo di  investigatore nella Palermo dominata dalla violenza dei clan - per una mancata carriera da scrittore:
  
"A Villa Serena, sul luogo della strage, abbiamo visto piangere commissari di polizia e ufficiali dei carabinieri, piangere senza ritegno, addossati ad un muro , senza che alcuno, né i subalterni, né i giornalisti, ardisse consolarli.
Lo scheletro della 'Giulietta', cioè un rottame nero, era al centro, c'era una ruota dell'auto schiacciata contro il muro, un brandello della carrozzeria infisso stranamente su un tronco d'albero; v'erano orribili membra ancora piene di sangue, confuse tra la terra, una scarpa; del maresciallo della Mobile, Silvio Corrao, hanno trovato solo la cinghia dei pantaloni, la fede nuziale e la fondina della pistola che sono state consegnate alla moglie.
Di lui non è rimasto niente altro, non può avere nemmeno una tomba.
Era un uomo malinconico, diceva sempre d'avere sbagliato mestiere, che avrebbe voluto fare lo scrittore e frequentava infatti la famosa Libreria Flaccovio che è un po' il cenacolo letterario dei palermitani, discuteva, litigava sul 'Gattopardo', su Moravia e Sciascia.
Lo chiamavano il maresciallo letterato.
Era in effetti un patetico ed intelligente uomo del Sud, che della sua terra cercava di capire le angosce più misteriose e, come tanti altri, sbagliava, cercava cioè di dare loro una ragione romantica.
Lo hanno ucciso con una bombola di gas da cucina.


Quattro delle nove vittime:
da sinistra in alto Mario Malausa e Calogero Vaccaro.
Sotto, Marino Fardelli ed Eugenio Altomare
Del tenente dei carabinieri , Mario Malausa, è stata ritrovata solo una stelletta della divisa e una spallina con i gradi.
Aveva ventiquattro anni, era piemontese, ex ufficiale dei carristi, alto ingenuo, spavaldo, un atleta che correva i cento metri in undici secondi netti.
Era venuto al Sud come l'ufficiale dei carabinieri de 'Il giorno della civetta' per capire e per combattere la sua parte.
Tutto quello che resta di lui potranno restituirlo alla madre entro una piccola busta gialla d'ufficio.
Del carabiniere Eugenio Altomare hanno rinvenuto solamente il berretto e l'anello nuziale.
Si era sposato la settimana scorsa.
Del maresciallo artificiere Pasquale Nuccio hanno ritrovato la giubba e un moncone sfigurato; i suoi allievi della scuola di artiglieria lo hanno riconosciuto dalle mostrine.
Era in licenza; con la moglie ed i bambini aveva deciso di trascorrere la vacanza a Mondello.
Del maresciallo dei carabinieri Calogero Vaccaro è stato rinvenuto il corpo decapitato a cinquanta metri di distanza dall'esplosione.
L'unica delle vittime che lo scoppio non ha straziato è il carabiniere Marino Fardelli, morto per dissanguamento in ospedale, due ore dopo il ricovero.
Aveva vent'anni e si era arruolato da sette mesi. 



Sul grande scrittoio settecentesco salone-studio di villa Abate, dove è stato posto il comando generale delle operazioni agli ordini dell'ispettore generale Parlato, ci sono fasci di telegrammi, a centinaia, anzi a migliaia, che arrivano da ogni parte della Sicilia e dell'Italia.
Telegrammi illustri, il Capo del Governo, il Presidente della Regione, molti deputati, senatori, sconosciuti cittadini che hanno scritto da tutte le città siciliane.
Alcuni invocano la legge speciale, come trent'anni fa, la possibilità cioè di arrestare subito e senza processo tutti i pregiudicati sospetti di attività mafiose, per relegarli in un'isola e renderli innocui.
Altri affermano: bisogna che gli uomini della polizia ed i carabinieri siano autorizzati a sparare, sparare subito, se del caso per primi, come lo furono gli uomini dell'FBI nei sanguinosi anni Trenta di Chicago.
Sono i più ingenui: sparare contro chi?



Altri infine, i più ragionevoli, o coloro che hanno capito come la vita di una nazione civile non possa essere regolata dalla paura, e come i grandi problemi della società, la ingiustizia che origina la miseria, la miseria che origina la violenza, la violenza che causa la corruzione e la strage, non si risolvono con la vendetta; costoro si chiedono se e quando la commissione parlamentare di inchiesta sulla mafia comincerà veramente a funzionare, e se avrà la forza morale, l'indipendenza politica e il potere giuridico per andare a fondo del problema.
Capire cioè da dove nasce la idea mafiosa, da quale tragico bisogno umano e chi se ne serve, e quali sono i suoi interessi, e quali le sue collusioni e corruzioni.
E colpire, colpire, colpire.
Implacabilmente e giustamente, secondo legge.



Ma questa forse è un pò un'idea romantica come quella di Silvio corpo, povero maresciallo della Squadra Mobile di Palermo, che trascorreva le sue ore libere a discutere del 'Gattopardo', e s'illudeva che anche il crimine avesse sempre una sua remota ma sicura ragione di poesia.
E di lui è stata ritrovata solo la cinghia dei pantaloni"

lunedì 2 aprile 2018

VICENDE SICILIANE E METAFORA DELLE TONNARE

Interno della tonnara trapanese di Favignana.
La fotografia è di ReportageSicilia
"L'isola deve la sua rinomanza alle straordinarie mattanze di tonni che vi si fanno nei mesi di maggio e giugno, e costituiscono sorgenti di cospicue ricchezze per la casa Florio..."

Così Attilio Brunialti e Stefano Grande scrivevano nel 1922 nel saggio "Il Mediterraneo", edito da UTET.
L'opera dei due ricercatori - un ibrido racconto di viaggio, tra geografia, storia e cronache del costume locale - nel descrivere l'isola di Favignana e la sua tonnara tributava ancora ai Florio un ruolo da floridi e agiati imprenditori.




In realtà, alla data di pubblicazione di quel saggio, "casa Florio" viveva da anni un'irreversibile decadenza.
Già dal 1909 la fruttuosissima tonnara di Favignana venne utilizzata insieme a quella di Formica per ottenere un anticipo pari ad 8 milioni di lire dalla famiglia genovese dei Parodi e dai Pedemonte-Lavagetto di Alessandria.
Ai creditori venne ceduta la produzione di 6 stagioni di pesca del tonno; a garanzia dell'intera operazione, l'intero patrimonio di beni di proprietà dei Florio nelle Egadi venne ipotecato.
Nel 1935, dopo la costituzione della "Società Finanziaria I. e V. Florio", le azioni delle tonnare vennero definitivamente acquisite dall'"Istituto per la Ricostruzione Industriale": l'epopea della famiglia di origine calabresi alle Egadi - iniziata nel 1874 - si concluse così per sempre.



Nel 1987, la parabola dei Florio e delle loro tonnare venne  letta da Matteo Collura come il segno della più generale perdita di buone opportunità ( sempre da imputare agli uomini ) nella storia dell'Isola:

"Ed ecco che la pesca del tonno diventa una sorta di metafora della Sicilia, delle sue dominazioni ( il periodo arabo fu ricco di scoperte e insegnamenti per la mattanza ), delle sue occasioni e risorse non sfruttate o sprecate"


    

domenica 1 aprile 2018

PAESAGGIO SICILIANO DI VINCENZO NUCCI


VINCENZO NUCCI, Paesaggio siciliano, olio su tela, 1991