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lunedì 25 gennaio 2016

DISEGNI DI SICILIA



BERNARD PICARD, Encelado sotto il monte Etna, incisione ( 1731 )

domenica 24 gennaio 2016

MANUTENZIONE DI UNA BARCA AD ISOLA DELLE FEMMINE

Immagini di "Ciccio di Sferracavallo",  uno degli ultimi artigiani palermitani delle riparazioni delle barche da pesca



Francesco Favaloro al lavoro
su una barca da pesca ad Isola delle Femmine.
Le fotografie del post sono di ReportageSicilia

Nei paesi siciliani di mare il sole d'inverno offre giornate di colori nitidi e dalla forza riposante.
In quell'atmosfera di chiara quiete, l'osservazione dei lavori di riparazione di una barca da pesca regala riflessioni sul valore di certe attività artigiane messe in ombra dalle abitudini industriali che governano la nostra vita quotidiana.
L'uomo che ottura con la canapa le crepe sullo scafo della barca sul molo di Isola delle Femmine si chiama Francesco Favaloro ed ha 73 anni; lui però si presenta come "Ciccio di Sferracavallo", offrendosi in silenzio  ad una casuale intrusione fotografica di ReportageSicilia.
 
 
 
 
A Sferracavallo - la borgata palermitana che precede ad Ovest quella di Isola delle Femmine - il cognome Favaloro appartiene ad una famiglia da sempre legata alle attività della pesca e della costruzione e manutenzione delle barche.
"Ciccio di Sferracavallo" è oggi uno degli ultimi artigiani palermitani capaci di riparare con strumenti tradizionali i guasti provocati dall'incessante logorio del mare.



 
 
 
 
I suoi strumenti di lavoro impregnati di salsedine - canapa, martelli, "cugni", pialletti, tenaglie, smerigliatrice e un vecchio trapano - testimoniano un'attività cinquantennale sopravvissuta al moderno uso delle materie plastiche e della tecnologia digitale.
Sotto le mani di "Ciccio", il legno delle barche può ricevere quelle costanti cure che permettono di uscire in mare per lunghi anni.


 
 

Per ReportageSicilia, le fotografie di "Ciccio di Sferracavallo" hanno offerto l'occasione non scontata di riflettere sulla resistenza in Sicilia di attività strettamente legate a forme di economia locale, con al centro l'uomo ed il bagaglio delle sue conoscenze tecniche tradizionali. 

     

domenica 10 gennaio 2016

USTICA, ALLA RICERCA DI SE' NELL'ISOLA APOCALITTICA

L'accidentata solitudine usticese raccontata dal giornalista Felix M. De Michele in un reportage pubblicato nel 1961 dalla rivista "l'Italia" 


Il centro abitato di Ustica.
Le immagini del post illustrarono
un articolo pubblicato nel luglio del 1961
dalla rivista "L'Italia" edita dall'ENIT
e dalle Ferrovie dello Stato 


Soprattutto nelle terse giornate invernali, il profilo di Ustica si scorge con chiarezza da tutta la costa occidentale della provincia di Palermo.
L'isola appare meno lontana rispetto alla sua distanza geografica - 36 miglia - e più vicina rispetto alla reale frequentazione dei palermitani,  gran parte dei quali non vi hanno messo mai piede.
Ustica conserva così il suo carattere di isola vulcanica abbandonata nel basso Tirreno, lontana dai clamori mondani delle Eolie, dai voli charter di turisti che atterrano a Lampedusa o dalla familiare vicinanza delle Egadi al porto di Trapani.
Il carattere solitario di Ustica è rimasto così sostanzialmente immutato da decenni, e non lontano dalla descrizione che ne fece nel luglio del 1961 sulle pagine della rivista "L'Italia" ( edita da ENIT e Ferrovie dello Stato ) il giornalista Felix M. De Michele:

"Al largo di Palermo, leggermente spostata ad Ovest rispetto a questa, sorge dal profondo Tirreno Ustica.
Il mare intorno all'isola è chiarissimo - cristallo liquido sembra - ed è così limpido, tanto trasparente, che anche nelle sue profondità v'è una luce verde, opalescente, che sembra scaturire da ogni goccia d'acqua, come per un prodigio meraviglioso.
L'isola è solo un grumo di nera, caotica lava vulcanica eruttata nella notte dei tempi da un ignoto vulcano la cui gola incandescente da milioni di anni è spenta, e s'alza sul mare come un fiabesco paesaggio lunare, corrosa dai venti e bruciata dal sole.
La roccia scabra, accidentata, è grigia, bruna, nera, rossastra, ma ha qua e là strane venature, riflessi metallici che barbagliano improvvisi, violenti, e si dissolvono subito dopo in una polvere di luce, in un guizzo di scintille di mille colori, fiammelle verdi-rosse-gialle, quasi che la roccia arda, dentro, eternamente, e ne trapeli la vivezza d'un fuoco intimo.
La tocchi, la roccia, con timore, e t'attendi di sentirla infuocata, ma la senti invece fredda - sotto le dita - spenta e te ne stupisci e ti accorgi che fuoco non ve n'è, non ne arde, né lì, né altrove.
Cerchi, allora, come, dove, perché quelle fiammelle brillavano; come, dove, perché quella strana cascata di scintille è così esplosa d'un tratto, ma nulla trovi fuorché la roccia, dura, amara, cieca roccia, lava antica d'un vulcano ignoto.




Nei fianchi del monte, diruti e difficili, si aprono antri profondi nei quali la luce penetra attraverso l'acqua.
La voce ha sonorità strane, timbri metallici, echi assurde, e pare di sentirla provenire dal fondo chiaro, traslucido delle acque fosforescenti; sembra che lì, nella lontana penombra, in cui bagliori di topazio attraversano l'aria come brividi, v'è forse qualcuno che si nasconda e ripeta, sillaba per sillaba, la voce, le parole.
Ma tu sai che non v'è nessuno; sai che la voce è tua; lo sai, ma quasi non vi credi e cerchi con lo sguardo.
Fuori, il sole ti attende.
Il glorioso sole di questi serenissimi cieli nei quali - in solitudine - ti pare di poter liberare l'anima dal peso della carne e ascendere in purità.
Se cerchi te stesso, ad Ustica ti trovi finalmente, libero e puro.
Vedi, al margine dell'orizzonte passare una bianca nave, silenziosa, simile ad un fantasma.
E ti pare che quell'orizzonte sia alla fine del mondo, del tuo vecchio mondo.
Sul monte l'aspra bellezza ti circonda da ogni lato.
Ciglioni rotti, spessati, ti si aprono sotto i piedi, aerei ponti basaltici corrono da muro a muro, da roccia a roccia e pareti nere, gigantesche, s'innalzano a picco su te.
Una densa, possente vegetazione è allignata là dove un pugno di terra portato dal vento si è depositato attraverso i millenni.
Cactus, fichi d'india, euforbie, acacie, eucaliptus, viti, olivi hanno messo radici, hanno lottato contro la roccia per secoli, l'hanno spezzata e si sono insediati. Ma anelano d'arsura.
Le radici, avide, cercano dovunque un po' di umidità, una sola goccia d'acqua, emergono come mostruosi serpenti, strisciano disperate al suolo, s'arrampicano sui muri, implorano acqua.
Dall'alto del monte la vista è superba.
Hai sotto i piedi il paese, una manciata di cubi candidi fra i quali fa spicco la chiesa, accoccolata sulla scalea, un po' dovunque, fino al mare, ed il porticciolo è in una insenatura breve, falcata, con la spiaggetta di sabbia fine e lo stabilimento dei bagni che da aprile a settembre è sempre affollato di turisti di tutte le razze.




Vedi, dal monte, tutta l'isola cerchiata di un anello di spume.
Al di là dell'orizzonte, come fantasmi imprecisati, vedi le sagome lontane, color nebbia, delle Eolie, a sinistra, e di fronte, massiccia, possente, l'ombra dell'Isola grande, la madre, la Sicilia.
Il grido roco dei gabbiani rompe il silenzio e lo zoccolare degli asinelli sveglia echi che durano a lungo fra roccia e roccia.
Nell'aria calda di sole profumi violenti si alzano dalla terra: odore di timo, di mortella, di mentastra, di rosa selvatica, di ciclamino, e d'improvviso ti trovi di fronte ad una vegetazione tropicale che ti mozza il fiato per la sua forza.
Attraversi forre dense di un verde violento, virgulti e piante che s'intrecciano selvaggiamente, pareti di cactus fra cui i raggi del sole stentano a passare, ed intorno il caldo pulsare di una vita intensa, forte, inafferrabile.
Ma ad una svolta, tutto sparisce ed il colore smeraldino del mare ti riconquista.
A Nord, lo Spalmatore.
Una zona brulla, disseminata di massi e roccioni, sassosa.
Un deserto primevo.
Lì ogni anno vanno ad accamparsi migliaia di turisti, in quella terra da apocalisse.
Ergono la tenda ed accendono i loro fuochi da campo e fanno chilometri a cercare un secchio d'acqua, una cesta di pane e di frutta, di carne e di uova.
E poi non si muovono più di lì per una settimana.
Dipingono, scrivono, leggono, pensano. Nudi, quasi nudi, soli, a coppie, a gruppi.
Allo Spalmatore, di colpo, scompare tutto ciò che il progresso ha dato all'uomo in migliaia di anni e la vita ricomincia al punto in cui la lasciarono Adamo ed Eva. Nella felicità della libera natura, nella pace assoluta del cielo sereno e del mare propizio, la vita ritorna alla pura espressione della divina creazione, gioiosa ed innocente nella sua elementarità.
I tramonti di Ustica sono favole raccontate nel cielo, nel mare, sulla terra con la tavolozza dell'arcobaleno.
Quando il sole, compiuta la sua parabola sfiora agonizzando l'orlo dell'orizzonte, le acque si tingono di fuoco, avvampano di sangue, splendono di luce cangiante in mille colori.
Ed è allora che le barche sciolgono le vele al vento della sera che le gonfia e le spinge sul mare, dove, nella notte, s'acquattano, immote, e le loro luci lontane sembrano stelle misteriose calate dal cielo ad adagiarsi sul mare cupo in cui si rifrangono in mille frantumi scintillanti"



 

giovedì 7 gennaio 2016

SICILIANDO














"La Sicilia è una terra che ha tante affinità con la nostra Toscana: è, come la nostra, una terra baciata da Dio per la bellezza del suo paesaggio e per la bellezza e ricchezza delle opere d'arte.
Ed ha affinità profonde con la Toscana anche per la spiritualità; è, infatti, anche, e sopratutto, la terra dove è fiorita presto la poesia, come da noi, e dove, come da noi, la letteratura ha avuto sviluppi rigogliosi"
Armando Nocentini