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sabato 31 gennaio 2015

IN BOCCA AL LUPO, PRESIDENTE


Sergio Mattarella,
eletto Presidente della Repubblica, primo Capo dello Stato siciliano

SICILIANDO














"... Il solo compito da assolvere è che non si continui a pensare alla vecchia maniera, cioè che la Sicilia sia irredimibile e che per essere un paradiso non dovrebbe essere abitata dai Siciliani.
Piaccia o non piaccia, tuttavia, come sempre in passato così sempre in futuro, la Sicilia sarà quella che i Siciliani vorranno che sia"
Francesco Renda

venerdì 30 gennaio 2015

IL VOLUTTUOSO "PASSO IBLEO" DI RAGUSA

Notazioni topografiche e suggestioni mitologiche di Ragusa Ibla nelle pagine scritte 80 anni fa dal saggista Pier Silvio Rivetta

Il quartiere Mocarda, a Ragusa Ibla.
La fotografia dovrebbe risalire agli inizi degli anni Cinquanta
dello scorso secolo e venne pubblicata
nell'opera di E.Chiusa e G.Casolaro
"Sicilia", edita nel 1974
da Edizioni Azienda Grafica Editoriale Torino 

Nell'opera "Itinerari bizzarri, curiosità italiche" ( Edizioni Ceschina, Milano ), il giornalista e saggista romano Pier Silvio Rivetta - noto con lo pseudonimo di "Toddi" - inserì nel 1935 alcune curiose notazioni su Ragusa Ibla:


"La città nuova - dalle vie regolari a scacchiera - digrada verso al città vecchia, irregolare e contorta: Ibla.
I due centri, sino a poco fa, eran riuniti soltanto dalla ripida scalinata, assai pittoresca ed altrettanto faticosa.
Oggi un comodo servizio di autobus percorre la bella e audace strada a giravolta che collega le due Raguse, unite dal 6 dicembre 1926 in un unico comune, capoluogo di provincia.
Ragusa, elevata a provincia, ha carpito a Siracusa un primato geografico: oggi Ragusa è il capoluogo di provincia più meridionale d'Italia.
E' anzi il solo che sia più a Sud del 37° parallelo, a una latitudine che concorre con quella di Malaga in Andalusia, Tunisi d'Africa e Sparta nel Peloponneso".

"Da nessun paese si scorge Ragusa; né da Ragusa - nemmeno dal più alto pinnacolo - si vede paese alcuno; Ragusa è la città più nascosta d'Italia: bisogna venirci, ma vi si viene troppo poco. 
Eppure ci vennero dopo i Sicani, i Greci, gli Arabi e i Normanni.
E chi sa quanti altri; poi che alcuni credono che Ragusa di Sicilia sia omonima di quella di Dalmazia, perché fondata appunto dai Ragusei Dalmati, giunti fin qui a ricostruire una città presso la semidistrutta Ibla.
Fantasiosa versione, suggerita forse dal nome coincidente.
Altri, più semplicioni, vorrebbero che Ragusa non significasse che 'racchiusa'.
La topografia accrediterebbe questa spiegazione per il nome della città nascosta dai pianori degli Iblei.
Ibla, invece, nome di tutta la regione Iblea, proverrebbe da un epiteto sicano-grecizzato di Afrodite.
I Romani chiamarono "hyblacus gressus" uno speciale incedere della dea più varia dell'antichità, la quale sapeva essere pudica anadiomene, massaia ciprigna e sfacciata pandemia.
Il 'passo ibleo' di Venere apparteneva al repertorio provocante.
Era quella andatura molle e voluttuosa che alcune dive dello schermo credono di avere inventato nel secolo nostro..." 

   







mercoledì 28 gennaio 2015

CRONACHE DELLA TRAGEDIA DEL BELICE

I temi degli alunni di una scuola media fra le rovine di Montevago e la testimonianza della devastazione a Gibellina in due reportage pubblicati dalla "Domenica del Corriere" il 30 gennaio del 1968


Lo sconforto di un terremotato a Salaparuta,
uno dei centri del Belìce devastati dal terremoto
del gennaio del 1968.
ReportageSicilia ripropone due resoconti
dai luoghi del sisma firmati da Luigi Cavicchioli
e Vittorio Paliotti, entrambi pubblicati
il 30 gennaio del 1968 dal settimanale
"Domenica del Corriere".
Le immagini del post vennero scattate dai fotografi
Evaristo Fusar e Gianni Gelmi

Negli ultimi giorni di gennaio di 47 anni fa, numerosi inviati di testate giornalistiche italiane documentarono con i loro reportage il dramma del terremoto nel Belìce, che provocò la morte di almeno 296 persone, il ferimento di un migliaio e circa 10.000 sfollati ( dati della Protezione Civile, discordanti però rispetto a quelli riferiti da altri siti, anche di Comuni coinvolti nell'evento ).
Le scosse provocarono danni in una ventina di abitati del trapanese, dell'agrigentino e del palermitano.
Salaparuta, Gibellina, Santa Ninfa e Montevago vennero cancellati dalla violenza del terremoto e da un'edilizia in cui l'uso del cemento armato era limitato solo a pochissimi edifici di più recente costruzione.


Fuga in strada
durante una delle numerose scosse
che colpirono duramente
le province di Trapani e Agrigento

Danni gravi colpirono invece Santa Margherita del Belice e Partanna.
Pochi giorni dopo il sisma, le poche costruzioni rimaste parzialmente in piedi furono distrutte con l'esplosivo, a completare la distruzione in quest'area della Sicilia occidentale.  
Quello del 1968 fu un evento che per settimane rivelò all'Italia già da tempo uscita dall'illusoria bolla del "boom economico" la realtà di un Sud lasciato ai margini dello sviluppo socio-economico e consegnato all'immobilismo clientelare della sua classe politica.


Panoramica sulla distruzione a Gibellina.
Si legge nella didascalia:
"Gibellina era un paese fiorente.
La prima scossa è bastata per radere al suolo
quasi tutte le sue case.
Molti abitanti sono riusciti a fuggire,
gli altri sono rimasti intrappolati fra le mura
che fino ad allora li avevano protetti"


Salaparuta e gli effetti delle scosse.
"Sembra di essere di nuovo all'epoca dei bombardamenti.
Ma non è stata la guerra a distruggere il paese,
è stato il terremoto in pochi minuti"
Nella fotografia che segue, ancora Salaparuta.
"Il paese non esiste più.
Il terremoto l'ha raso al suolo.
Un uomo ha frugato per ore fra le macerie della sua casa.
Ora se ne va" 

Quel terremoto avrebbe inoltre riservato al Belìce - oltre ai lutti ed alle devastazioni - un inevitabile stravolgimento dell'originario tessuto sociale, minato nelle settimane successive da un'accelerazione dei fenomeni migratori da parte di famiglie che per colpa del sisma avevano perso ogni loro bene o fonte di reddito.
Le fotografie riproposte nel post illustrarono due resoconti compiuti pochi giorni dopo il terremoto dal settimanale "Domenica del Corriere" in edicola il 30 gennaio del 1968.





Gli articoli di quel periodico portano la firma di Luigi Cavicchioli, Vittorio PaliottiGilberto Severi; le immagini quelle di Evaristo Fusar e Gianni Gelmi.
Il reportage del romano Cavicchioli fu ambientato a Montevago, uno dei paesi agrigentini distrutti dal terremoto con 95 vittime e "simbolo, mi è parso - scrisse l'inviato - "di una Sicilia sventurata e fiera, amara e generosa, fatalista e passionale, che il tempo va lentamente cancellando".


"Alle prime luci di lunedi 15 gennaio
Montevago è apparsa cosi ai nostri due fotografi
che sono stati i primi estranei a entrare
nel paese immerso nel più profondo silenzio
rotto solo dall'abbaiare dei cani.
Degli abitanti, infatti, chi non era morto era fuggito"


"E' di Montevago che parlerò, parlando dei alcuni suoi abitanti, morti o superstiti, perché un misterioso cordone ombelicale unisce a Montevago ognuno dei suoi tremila abitanti: tremila corpi e un'anima sola.
I cadaveri tirati fuori dalle macerie erano mucchietti di stracci, su quelli già identificati era appuntato un pezzo di carta col nome.
Da un mucchio di macerie ( facile arguire che qui c'era la scuola media ) affioravano due pacchetti di fogli protocollo.
Non senza difficoltà li ho recuperati.
Sono compiti d'italiano corretti e passati all'archivio della scuola.
Nel primo pacchetto ci sono i temi svolti il 22 novembre 1966 nella classe prima B maschile. Nel secondo, quelli svolti il 18 maggio 1967 dalle femmine della seconda A.
Ma il fatto singolare è che in entrambi i casi il tema sia praticamente lo stesso: 'Parla del tuo paese' e 'Descrivi il tuo paese'.


"Cinque persone viaggiavano su quest'auto.
Percorrevano una strada di Montevago
quando il paese ha sussultato.
L'auto è rimasta sotto le macerie
con i cinque prigionieri
che sono stati trovati morti"

Chissà quanti temi sono stati assegnati, nelle due annate scolastiche, nelle diverse classi: proprio questi due pacchetti dovevano finire insieme, affiorare dalle macerie, come per farsi 'udire', per confidarci che cosa pensavano questi ragazzi del loro paese che non c'è più.
Una ben strana e sconcertante coincidenza: ma i temi sono qui, col loro ingenuo linguaggio, con i nomi delle bambine e dei maschietti che li svolsero, le correzioni in rosso dell'insegnante, i voti ( brutti voti in verità, che allora erano giusti, ma se li rileggesse oggi quei temi, l'insegnante, oggi che il paese non c'è più, avrebbe dieci e lacrime per tutti ).
Bavetta Calogera ( il cui sei e mezzo la qualifica come la prima della classe ) comincia così il suo temino:
'In questa occasione posso parlare e difendere il mio paese Montevago: è un piccolo paese, ma a me è molto caro, anche perchè ci sono nata e cresciuta. Conta tremila abitanti. Lo fecero costruire il principe Rutilio Scirotta nel 1640...'.


"Dello stesso colore delle pietre
che lo hanno ricoperto questo povero corpo
trovato sotto le macerie attende la sepoltura.
E' una delle tante vittime di Montevago,
il paese dove tutti si credevano al sicuro
dai terremoti perché avevano case basse"

E lo ha distrutto il terremoto all'alba di lunedi 15 gennaio 1968.
Altri paesi, Salaparuta, Santa Margherita Belice, Gibellina, sono stati distrutti completamente o quasi: ma una differenza enorme e incomprensibile è nel numero delle vittime.
Pochissimi morti o nessuno negli altri centri, tranne Gibellina, dove sono tanti, i morti, ma sempre un terzo di quelli di Montevago su un numero più che doppio di abitanti. Perché?
Il terremoto ha investito con uguale violenza una zona vastissima: le rovine sono ugualmente impressionanti a Montevago e a Santa Margherita, a Salaparuta e a Gibellina.


"Nata nel 1864, Giuseppina Impastato
era sopravvissuta ad un secolo non certamente tranquillo.
Anche il terremoto di Montevago in un primo momento
l'ha rispettata: la vecchietta è stata infatti
estratta viva dalle macerie.
'E' la guerra, è la guerra',
ha mormorato ai suoi soccorritori.
Poco dopo è spirata in ospedale"

Ma tre scosse, nel primo pomeriggio di domenica, avevano dato un allarme ben chiaro, avvertito in tutta la zona.
Ci fu uno nuova e più forte scossa alle 2.35 di notte, prima del fatale sconquasso che avvenne alle 3.02.
E a quell'ora i paesi erano già quasi completamente abbandonati, la gente era fuggita nei campi, in tutta la zona.
Soltanto a Montevago molta gente indugiava ancora nelle case o addirittura dormiva nel proprio letto. Perché?
Non avevano compreso il pericolo? Non avevano paura del terremoto?
'Altroché, se avevamo paura: mio cugino Antonio, poverino, prima di andare a dormire lo disse, un pò per scherzare e un pò sul serio, che andava a fare la morte del topo', afferma Giuseppe Calogero, scampato per un soffio.
Perché non scapparono come la gente di altri paesi?
Giuseppe Calogero si stringe nelle spalle:
'Ma, per destino... Qualcuno doveva pure sacrificarsi, altrimenti senza il mucchio di morti, nemmeno si sarebbero accorti, nel continente, che le nostre case sono crollate, che abbiamo perso tutto'.
Simili argomenti, è ovvio, non hanno un senso concreto, ma adombrano la realtà di un fatalismo che a Montevago toccava il punto massimo di tutta la zona: questo era, di tutta la zona, il paese più povero, più solo, arroccato nella consapevolezza o convinzione dei suoi diritti traditi, non solo nell'ambito nazionale, ma regionale e forse persino provinciale.


"Tutto il dolore della Sicilia sembra raccolto in questo volto"

Angelo Basile scriveva nel suo tema:
'A Montevago abbiamo specialmente il nostro arciprete che tutti vanno da lui per qualsiasi bisogno e lui aiuta sempre tutti, i poveri e bisognosi'.
Francesco Billeri scrive nel suo:
'Il sindaco di Montevago è Barile Leonardo lui è buono con tutti e chi ha bisogno a qualunque cosa ci pensa lui'...
... Scrive Rosaria Miliello nel suo testo:
'Tutti al mio paese si aiutano uno con l'altro, anche qualunque sacrificio per aiutare parenti ed amici. Uno che tutti dicono è tanto buono anche più di tutti è il medico condotto Marino, i malati lui il dottore darebbe la vita perché diventassero tutti guariti e vivaci'...


"Hanno perso tutto e ancora
non se ne rendono conto.
Non hanno più la casa, non hanno più i parenti.
Li ospita una tenda, poi si vedrà.
I tre di questa famiglia
non hanno nemmeno la forza di parlare"

... Così Antonina Gusso nel suo tema:
' A Montevago non ci sono divertimenti, né cinema, il cinema è nei paesi vicini. Ma è un paese bello anche senza divertimenti, chi c'è nato ci vuole morire, anche se non c'è divertimento'.
Avrebbero parlato e come, i ragazzi della prima B, nei loro temi, dell'eroe di Montevago, se i temi non fossero di due anni fa, quando l'eroe era un semplice carabiniere.
Quel carabiniere, Giuseppe Giordano, che recentemente ha meritato plauso e gratitudine arrestando con azione audace i due banditi Cavallero e Notarnicola.
Montevago organizzò festeggiamenti in suo onore, il sindaco gli appuntò sul petto una medaglia d'oro.


"Il vitello era appena nato
quando si è avuta la prima scossa.
La stalla è crollata ma un soldato,
scavando faticosamente tra le rovine,
ha estratto il vitello dalle macerie e l'ha portato in salvo"

Ora il carabiniere Giuseppe Giordano è tornato al paese, per identificare il padre e due fratelli morti sotto le macerie.
Le strazianti immagini che abbiamo negli occhi, non ci impediscono di sorridere leggendo l'ultimo tema, quello di Geronimo Galanti, che a un certo punto dice:
'... Al mio paese, Montevago, si vive tranquilli e felici, l'aria è buona, si sente l'odore dei fiori, a Montevago vivono più di cento anni come la signora Giuseppina'.
La signora Giuseppina aveva 104 anni. E' rimasta alcune ore sotto le macerie, l'hanno tirata fuori che sembrava sana e vispa, ma poi è morta anche lei".


L'altro inviato della "Domenica del Corriere", il napoletano Vittorio Paliotti, firmo invece un reportage che documentò drammaticamente la devastazione a Gibellina, nel trapanese.
Qui il terremoto provocò 133 vittime e la distruzione degli edifici fu quasi totale.
Il viaggio da Palermo sino alle rovine del paese, secondo il cronista, fu "inenarrabile":


"Una donna di Santa Margherita del Belìce
ha salvato la capra, un sacco di povere cose, una sedia.
Ora è in un campo profughi, con la sua capra e le sue poche cose"

"Autocolonne di soccorritori che andavano, mezzi di fortuna di profughi che venivano. Ogni tanto una tendopoli. Alle porte del Comune di Vita, sono entrato in una di queste tendopoli. Gli uomini erano fuori dalle tende e si contendevano le pagnotte e le coperte che alcuni marinai, da un camion in movimento, lanciavano alla rinfusa.
'A me, un pezzo di pane a me!'.
Ma i marinai non avevano il tempo di scegliere le persone alle quali dare le pagnotte. Lanciavano pagnotte sulla folla e basta.
A Salemi ( il comune che precede Gibellina ) sono entrato nell'ospedale: un ospedale di guerra.
A mano a mano che procedo verso Gibellina il viaggio diventa più difficile.
I ponticelli sui torrenti sono pericolanti. Bisogna scendere, attraversarli a piedi, per accertarsi che non si odano scricchiolii, e poi si può passare con l'automobile.
Quando sono in vista di Gibellina, abbandono la macchina e mi unisco ad Arrigo Pasquini.


"Le tende erette dalla Croce Rossa
e dall'Esercito hanno accolto
migliaia di povera gente rimasta senza casa.
Il vecchio in primo piano ha in un fagotto
le poche cose che gli sono rimaste.
In braccio ha una nipotina
rimasta senza le scarpe"

Presso il cimitero ( i morti sono ancora allineati sul prato, ne arrivano in continuazione ) sono accampati i carabinieri giunti da Palermo.
'Andiamo di casa in casa e gridiamo "C'è qualcuno?". Se rispondono scaviamo. Non c'è altra scelta', mi spiega un carabiniere.
Un vigile del fuoco di Brescia, certo Magni, mi racconta che, con questo sistema, ha salvato una bambina di quattro anni.
'Appena l'ho portata alla luce ha detto "Ciuccio, ciuccio".
Io credevo che chiedesse notizie del suo asino. Lei per "ciuccio" invece intendeva "biberon". Con noi non abbiamo biberon'...".

Il racconto di Paliotti è una testimonianza paurosa della scossa più violenta che colpì in quei giorni il Belìce, quella registrata alle 17.45 di martedì 16 gennaio e dalla durata di 57 secondi.
L'inviato del settimanale si trovava in compagnia del giornalista palermitano Arrigo Pasquini e di tre carabinieri: il terrore li sorprese mentre camminavano sui cumuli di rovine di via del Calvario,  una delle principali strade del paese:

"Dunque, camminavamo per Gibellina, io e Pasquini, un ragazzo di meno di trent'anni.
Fin dove i bulldozer hanno lavorato si procede abbastanza speditamente, ma più in là sono soltanto macerie: macerie al centro della strada, macerie ai due lati.
I residui di quelle che furono case, e che ora, orribili occhiaie di morte, lasciano intravedere soltanto quadri in bilico su ritagli di pareti.
C'è un tanfo orribile.
'Saranno le condutture igieniche rotte', dico.
'Macchè condutture. Sono i morti', replica Pasquini.
E procediamo fra i massi, aiutandoci con le mani per camminare.
Incontriamo i tre carabinieri, tuta mimetica e basco; ragazzi sui ventidue anni, uno è napoletano, gli altri due sono di Palermo.
Hanno appena messo di scavare. Che cosa? 'Morti, soltanto morti', mi risponde il carabiniere napoletano.


"La zona della Sicilia occidentale
dove il terremoto si è scatenato con un'energia
paragonabile a quella di una bomba atomica.
Su Montevago, Gibellina e Salaparuta si è abbattuto
un gigantesco colpo di maglio che ha quasi
completamente distrutto i paesi, poi l'onda sismica
si è allargata ai centri vicini,
lasciando un'altra scia di rovine e morti"


Siamo tutti e cinque su un cumulo di macerie, e parliamo. Io segno qualche notizia sul taccuino. Parliamo, e anche ridiamo, perchè i militari di leva, dovunque li spinga il loro dovere, hanno sempre sulle labbra una battuta pronta.
Ma ecco ( sono le 17.45 ) che le parole e le risate si spengono: le macerie sulle quali sostiamo sussultano paurosamente, i residui di pareti che a destra e sinistra, fiancheggiano la strada, precipitano.
'Fuggiamo', grida il carabiniere napoletano.
Ma dove fuggire, se tutto precipita, se la terra ci manca sotto i piedi, se ora davanti a noi si è aperta una voragine?
Scivoliamo dolcemente in questa voragine e tutto balla intorno a noi.
Istintivamente ci abbracciamo tutti e cinque, stretti a capannello.
E' stato allora che ho imparato a conoscere la paura. Che cos'è la paura? E' fiato grosso, asma, impossibilità di respirare, mancanza assoluta di pensiero.
Credevo che il pensiero umano non si arrestasse mai, e invece il mio pensiero si è arrestato per 57 secondi.
E' stata, dicono, la scossa più spaventose di tutte, la più violenta.
Quando il boato si è spento e la terra ha smesso di sussultare, io, Arrigo Pasquini e i tre carabinieri, tutti e cinque con lividure varie alle gambe e alle braccia, ma vivi ( perché poi, vivi, proprio noi cinque? ) ci siamo messi ad annaspare fra le macerie e, raggiunto il tratto di strada spianato dai bulldozer, a fuggire, finalmente a fuggire..."




   

  
   

    

domenica 25 gennaio 2015

DISEGNI DI SICILIA


Pubblicità Azienda Autonoma Turismo Siracusa,
tratta da "Handbook for Italy" di Giovanni Mariotti,
Edizioni Saturnia, 1952 

LE ALLEGORICHE VIRTU' DEL CONTE DI ASSORO

Dal secolo XV, il sepolcro di Francesco Ventimiglia celebra le presunte doti di uno degli storici feudatari del paese ennese


Il prezioso sepolcro gaginesco di Francesco Ventimiglia,
all'interno della chiesa dei Carmelitani ad Assoro,
in provincia di Enna.
Le quattro cariatidi femminili rappresentano
le virtù della prudenza, della giustizia, della fortezza
e della temperanza attribuite ad uno dei feudatari locali
di una dinastia di origine catalana.
Nell'altra fotografia del post,
uno scorcio del centro storico di Assoro.
Le immagini sono tratte dall'opera di
E.Chiusa e G.Casolaro "Sicilia", edita nel 1974 da
Edizioni Azienda Grafica Editoriale di Torino 

Molte grandi e piccole città siciliane conservano all'interno delle proprie chiese la memoria della loro lunghissima stagione feudale.
Baroni, conti ed altri più o meno titolati padroni un tempo di feudi agricoli e centri urbani sopravvivono infatti nelle fattezze scultoree di marmo che impreziosiscono le loro tombe: sepolcri talvolta di un qualche interesse architettonico, vanto delle guide storico-artistiche locali che ne ricordano di frequente lo "stile gaginiano"
La ricerca di queste testimonianze funerarie del potere feudale - che a volte ospitano anche arcivescovi e viceré - può essere estesa dalle più note chiese di Palermo a quelle meno conosciute e visitate di paesi lontani dai circuiti turistici della Sicilia.
Un esempio di questo costume si osserva ad Assoro, uno dei centri urbani più antichi dell'isola, un tempo ricco di giacimenti di zolfo e di rocce di alabastro. 
Dal gennaio del 1393 e sino al 1812 in questo paese dell'ennese furono padroni i Ventimiglia, famiglia di origine catalana cui si deve la costruzione di un castello e del campanile della basilica del Priorato di San Leone.
Ad attestare ai posteri il loro secolare potere su Assoro, quattro esponenti di quella dinastia - i conti Ponzio, Vitale, Giovanni e Francesco Valguarnera - si fecero tumulare all'interno della chiesa del Priorato e in quella dei Carmelitani.
Il sepolcro che dal 1491 custodisce in quest'ultimo edificio i resti di Francesco è attribuito a Domenico Gagini ed e' un esempio di quella scultura funeraria del tardo Quattrocento che ebbe il compito di ricordare con fasto i supposti meriti dei nobili feudatari defunti nell'isola.



Le fotografie del monumento funebre del conte di Assoro e del centro storico del paese sono tratte dall'opera di E.Chiusa e G.Casolaro "Sicilia", edita nel 1974 da Edizioni Azienda Grafica Editoriale di Torino
Nella prima immagine, il corpo marmoreo di Francesco Ventimiglia è vegliato da una Madonna con Bambino, il sepolcro è invece decorato da due angeli alati che sorreggono in posizione quasi sdraiata lo stemma del casato.
La tomba è sorretta da quattro cariatidi che rappresentano le virtù attribuite per l'eternità al conte: prudenza, giustizia, fortezza e temperanza.
Le cronache del quindicesimo secolo non spiegano se Francesco Ventimiglia abbia davvero praticato quelle doti ad Assoro; certo, non lo ha fatto in Sicilia la maggior parte dei baroni del potere e della politica di decenni più recenti ai nostri giorni.



    

mercoledì 21 gennaio 2015

PIONIERISTICHE IMMERSIONI EOLIANE


Immersione nel mare eoliano
negli anni del secondo dopoguerra:
i tre subacquei fanno parte del gruppo
legato al nome del documentarista Francesco Alliata,
fondatore della "Panaria Film"

Le immagini subacquee del gruppo di "cacciatori" guidati da Francesco Alliata tratte dall'opera "Volto delle Eolie", edita nel 1951 da Flaccovio

"Le Eolie - questo gruppo di isole già tanto di un genere 'isolato' per le sue fumarole, le sue eruzioni, i suoi 'ghiacciai' di vetro vulcanico, la sua sciara di fuoco, le sue superbe solitudini e tutte le sue nevrosi di un mondo ancora in assestazione - moltiplicano, in seno alle acque, le loro meraviglie: cataclismi pietrificati in paesaggi sottomarini, colossali buchi neri che indicano l'ingresso delle grotte, traforo di rocce e ricami di guglie, navi morte, ormeggiate in morte città che sprofondano per fenomeni vulcanici e dove si aggirano - sotto gli archi e tra le colonne - non più proconsoli romani ma le ricciole e le cernie..."

Le sorprese fantastiche nascoste nei fondali delle isole Eolie vennero così descritte dallo scrittore catanese Massimo Simili nell'opera "Volto delle Eolie", edita nel 1951 da Flaccovio.



Il libro - scritto insieme a Vitaliano Brancati e Fosco Maraini e ricco di riflessioni sulla storia, sulle bellezze naturali e sulla cultura delle sette isole - venne pubblicato dopo il successo di cinque documentari dedicati all'ambiente marino siciliano prodotti dalla palermitana "Panaria Film": "Cacciatori sottomarini", "Tonnara", "Tra Scilla e Cariddi", "Bianche Eolie", "Isole di Cenere".
A fondare la "Panaria Film", nel 1946, furono Francesco Alliata, Renzo Avanzo, Quintino di Napoli e Pietro Moncada, i cui nomi fecero la storia documentaristica e cinematografica delle isole Eolie negli anni del secondo dopoguerra.





Dei quattro produttori , il più famoso è certo Francesco Alliata, classe 1919, palermitano, secolare lignaggio nobiliare ed una passione precoce per la ripresa filmata.
Nel suo imponente saggio "I siciliani" ( Edizione Neri Pozza, 2012 ), Alfio Caruso così descrive "l'esplosione d'iniziative e la gioia di vivere" di Alliata dopo gli esordi da documentaria ai tempi della Gioventù Universitaria Fascista:

"L'epicentro sono le Eolie, colonia penale nel periodo borbonico, terra di confino durante il fascismo.
All'epoca sono quasi sconosciute, in gran parte senza luce e acqua corrente, prive di turismo a eccezione di un piccolissimo nucleo di estimatori.
Però il mare e i fondali offrono spettacoli strepitosi. 
In compagnia di tre amici, Quintino di Napoli, Piero Moncada di Paternò e Renzo Avanzo, il principe si lancia nei documentari: ne girano una trentina su quello che loro definiscono il sesto continente.


La casa bianca sulla sinistra della fotografia
agli inizi degli anni Cinquanta ha ospitato a Salina
la sede del "Circolo Siciliano dei Cacciatori Sottomarini"

Suggestioni architettoniche del mare Pacifico
sulle terrazze del Circolo di Salina


A far da apprendista giunge un giovanissimo Folco Quilici; a prendere appunti è un cugino acquisito, Fosco Maraini, il papà di Dacia, marito di Topazia Alliata, appena rientrato dalla lunghissima permanenza in Giappone.
Il problema principale è preservare la cinepresa dall'acqua: si rivela utile, ma ingestibile.
L'anno seguente viene realizzata una camicia su misura per la Arriflex.
Alliata la usa per avventurarsi nella camera della morte di una tonnara: le scene risultano di grande impatto, i pescatori se ne adontano perché vi fanno la parte dei carnefici.
Nella sua ricerca di sequenze mai realizzate in precedenza, Alliata s'immerge nel canale di Sicilia per riprendere il passaggio dei pesci.
La sfida stavolta è con le correnti impetuose, che minacciano di travolgerlo a ogni secondo..."

Le immagini riproposte da ReportageSicilia tratte da "Volto delle Eolie" testimoniano il primo lavoro di documentazione subacquea compiuto proprio dal gruppo di Alliata nelle Eolie.
I cinque esploratori dei fondali dell'arcipelago vulcanico diedero vita a Salina al "Circolo Siciliano dei Cacciatori Sottomarini".


La costa Sud di Alicudi con le poche abitazioni
degli anni di attività della "Panaria Film"

Il Circolo - il cui nome evoca le fantastiche avventure marine dei romanzi di Jules Verne - era alloggiato in una casa attrezzata per ricevere ospiti "con lo stesse comodità e nello stesso spirito simpaticamente sportivo dei rifugi di montagna per gli alpinisti", secondo la descrizione di Fosco Maraini.
La struttura era in grado di mettere a disposizione imbarcazioni a motore e guide locali, e fu per questo motivo una delle prime infrastrutture in grado di attirare turisti nelle Eolie.



Il gruppo delle Eolie con, in primo piano, Panarea
    
L'attrezzatura dei "cacciatori" era pionieristica: una maschera di gomma e cristallo definita con il termine "gogle", un paio di pinne che lasciavano scoperto il tallone, un fucile ricavato da una canna cava dalla cui estremità spuntava la punta di un arpione guidato da un filo di naylon avvolto in un mulinello.


Il profilo di Filicudi

L'attività subacquea del gruppo di Francesco Alliata fu intensissima, fra spietate battute di pesca - "a Filucudi catturammo in quattro ore in quattro persone con la maschera e senza alcun apparecchio di respirazione 120 chilogrammi di pesce, fra ricciole, saraghi, cefali, ombrine ed altro", ricorderà Alliata - e la produzione del film "Vulcano", con Anna Magnani e Rossano Brazzi  
Nello stesso libro, Fosco Maraini fissò ancora una distinzione fra le sette isole rivelatrice del suo grande spirito di osservazione e destinata a chi non ammirava le Eolie soltanto per le sue meraviglie sottomarine:

"Da una parte ci sono le 'Eolie bianche', dall'altra le 'Eolie nere'.
'Eolie bianche' - Panarea, Lipari, Salina, Alicudi e Filicudi - possono dirsi quelle in cui l'impeto vulcanico si è ormai placato e l'uomo è riuscito a plasmare in qualche modo l'aspetto fisico dei luoghi; quelle in cui il sole splende con riflessi meno metallici e siderali, più da buon padre, generatore di vita e dispensatore di gioia.
'Eolie nere' - Stromboli e Vulcano - sono invece antichi e maledetti scogli sopravvissuti ai primordi; sono lembi di Luna; fuoco, inferno e basalti..." 


  
   

domenica 18 gennaio 2015

SICILIANDO














"'L'Italia, senza la Sicilia, non lascia alcuna traccia nell'anima; qui è la chiave di tutto', scrisse Goethe il 13 aprile 1787, durante il suo viaggio in Italia, quindici giorni dopo il suo arrivo a Palermo.
La frase è servita come una corazza per i siciliani altezzosi.
Ma certo la Sicilia è un mondo a parte"
Corrado Stajano

sabato 17 gennaio 2015

VIA RUGGERO SETTIMO ALL'EPOCA DEGLI SHORTS

Dietro lo sguardo di due uomini ad una ragazza in pantaloni corti il fotografo Nicola Scafidi realizzò nel 1971 il ritratto di una Palermo oggi scomparsa e più povera


Due giovani palermitani si voltano al passaggio
di una ragazza in shorts in via Ruggero Settimo.
La scena venne fissata nel 1971 dal fotografo Giusto Scafidi.
La fotografia riproposta da ReportageSicilia è tratta dall'opera
"Giusto Scafidi, fotografie" edita da Federico Motta nel 2000

Il 18 agosto del 1971 a Palermo il fotografo Giusto Scafidi realizzò in via Ruggero Settimo un'immagine che ricorda due più famose fotografie scattate anni prima a Firenze e Milano di donne in strada, sotto gli sguardi ammiccanti e maliziosi di uomini http://reportagesicilia.blogspot.it/search?q=agrigentini.
Come per le precedenti immagini, anche lo scatto di Scafidi - all'epoca fotoreporter di punta delle cronache palermitane - sembra essere stato il frutto di una paziente costruzione della scena, suggerita dallo sguardo compiacente della ragazza in direzione dell'obiettivo. 
La giovane in shorts viene incontro al fotografo passeggiando sul marciapiede piastrellato di una delle vie più battute del centro città; l'incrocio con due uomini provoca il loro immediato sguardo all'indietro, secondo quel cliché del gallismo siciliano in realtà esistente anche nelle più lontane città del "continente".
Oggi la fotografia di Giusto Scafidi suggerisce una riflessione sul mondo circostante a quella ragazza in shorts assai diverso dall'attuale.



Nel 1971, il set di via Ruggero Settimo racchiudeva nel raggio di poche centinaia di metri un pezzo rilevante di vita sociale ed economica di Palermo: i negozi di moda di storiche famiglie cittadine, la libreria Flaccovio, la sede Rai in via Cerda, il ristorante Charleston in piazzale Ungheria, il bar-pasticceria  in via Magliocco, il negozio di musica Ricordi, le sedi della Cassa Centrale di Risparmio per le Province Siciliane e quella del Banco di Sicilia.
All'elenco di queste vecchie presenze urbane non si salva oggi neppure una di quelle voci, estinte non per il passare delle mode che hanno accantonato l'epopea anni Settanta di shorts e minigonne, ma per il dissesto economico che impoverisce la Sicilia del 2015.
Affondando il coltello della riflessione sulla fotografia di Scafidi, poi, si può notare che all'epoca dello scatto della ragazza in shorts e dei due "galli" palermitani, l'opulenta città dell'epoca viveva una stagione di opprimente violenza mafiosa.



Nel 1971, Palermo subiva il pieno assalto della speculazione edilizia dei costruttori amici dei boss. 
Le cronache erano poi occupate dalla scomparsa del giornalista Mauro De Mauro e dall'omicidio del procuratore Pietro Scaglione: anche nelle stagioni del suo pieno benessere economico e degli shorts, la via Ruggero Settimo ha insomma rappresentato  una  città dall'identità sempre chiaroscurale.




  

venerdì 16 gennaio 2015

VECCHIA VENDEMMIA ETNEA

Tre fotografie di Federico Patellani scattate nel 1952 ed un racconto di Ercole Patti datato 1932 descrivono il lavoro fra le vigne delle pendici vulcaniche


Vendemmiatori in posa durante una pausa
di lavoro fra le vigne di Fornazzo di Milo,
sulle pendici catanesi dell'Etna.
Le fotografie del post furono realizzate
da Federico Patellani e corredarono un reportage
di Carlo Levi dal titolo "Attorno all'Etna"
pubblicato nel dicembre del 1952
dalla rivista "L'Illustrazione Italiana".
ReportageSicilia ripropone nel post il racconto
dello scrittore Ercole Patti "Vecchia Vendemmia"
pubblicato nel 1971 in "Diario Siciliano", edito da Bompiani

Le fotografie di questo post portano la firma di Federico Patellani ed illustrarono un reportage compiuto dallo scrittore Carlo Levi nella zona dell'Etna nel 1952.
Quel lavoro documentario - ricavato durante un viaggio nell'isola, dal quale Levi avrebbe tratto ispirazione per i racconti di "Le parole sono pietre" -  trovò spazio lo stesso anno nel numero speciale di Natale della rivista "L'Illustrazione Italiana", con il titolo "Attorno all'Etna".
ReportageSicilia ripropone tre fotografie di Patellani che documentarono allora la vendemmia fra i vigneti di Fornazzo di Milo, "di proprietà" - si legge in una didascalia - "di Giovanni Cavallaro".
Curiosamente, la narrazione di Levi non dedicò neppure una riga all'attività dei vendemmiatori, le cui condizioni di lavoro erano all'epoca durissime. 



Lo scrittore piemontese raccontò invece il penoso stato di vita feudale dei contadini della Ducea di Bronte, soffocati dagli usurai di Randazzo e Tortorici nel tentativo di acquistare le terre di Lord Bridporth: una narrazione attenta e dettagliata, non accompagnata però nel reportage per "L'Illustrazione Italiana" neppure da una fotografia.
Così, per descrivere la vendemmia sull'Etna del passato si devono citare le memorie catanesi di Ercole Patti.
La narrazione è contenuta nel volume "Diario Siciliano" che lo scrittore pubblicò nel 1971 per Bompiani, raccogliendovi racconti che rimandano alle colture stagionali etnee: la raccolta dell'uva e delle olive, quella delle arance e delle castagne.
Le pagine di Patti sono datate ottobre 1932 e documentano una giornata di vendemmia e pigiatura dell'uva sui versanti orientali di monte Ilice, fra Trecastagni e Zafferana Etnea.
Una scrittura - quella di Ercole Patti - che secondo il critico letterario Arnaldo Bocelli restituisce "una visione di una Sicilia splendida e luttuosa, innocente e carnale": 

"Il proprietario della vigna oggi si è alzato prestissimo, ha aperto il balconcino sull'orto; un'aria freschissima, ancora notturna, è entrata nella stanza.
Brillano le tre stelle mattutine dei Tre Re alte e vivide sulla casa.
All'orizzonte dalla parte del mare il cielo comincia a poco a poco a rischiararsi e un fianco dell'Etna viene fuori pianissimo dal buio della notte.
Nell'orto le galline dormono ancora nell'aia cinerea e fresca del giorno che viene.
Oggi è giornata di vendemmia. 
Il proprietario gira per la casa col passo pesante degli stivali chiodati, beve il caffè mentre dà le ultime disposizioni ai familiari.
Nel cortile il massaro lo aspetta con l'asina già sellata.
Canta un gallo rauco di sonno in un orto vicino; le stelle impallidiscono nel cielo.



Si vendemmia a monte Ilice a un'ora di strada dal paese. Le viti salgono sul monte come un piccolo esercito. La porta del palmento è spalancata; i pigiatori indossano i loro corti calzoncini, calzano i loro scarponi massicci ancora zuppi e arrossati dal mosto di ieri.
I vendemmiatori si sparpagliano fra le viti e cominciano a staccare i grappoli con colpi netti dei loro coltelli ricurvi e lucenti.
L'uva si va ammonticchiando entro i panieri e le ceste; i vendemmiatori la rovesciano attraverso l'apposita finestra nel palmento fra le gambe schizzate di mosto dei pigiatori.
L'uva precipita nell'impiantito massiccio e ruvido pavimentato a lastroni di lava come una strada e manda un leggero odore di tralci e di foglie stroncati.
I pigiatori vi cominciano a ballare sopra allegramente, a grandi pestate tenendo i pollici infilati sotto le ascelle alle maniche del panciotto, e cantano.
A mano a mano che i grappoli si vanno frantumando sotto gli scarponi si leva intorno un odore netto e vivo di mosto.
Dalle finestre spalancate sulla vigna entrano moscerini e calabroni ad ali spiegate nell'aria mattutina.
il mosto cola, lungo massicce condutture scavate nella pietra, nelle tine sottostanti passando fra l'intreccio di un grosso paniere grondante che serve da filtro. Dalla profondità delle tine viene su il fiato pungente del mosto in fermentazione e dà un leggero senso di vertigine a chi vi si affaccia dentro.



I pigiatori strascicano gli scarponi affondati nell'uva fino alla caviglia. Giunge attraverso l'aria serena qualche voce della vigna, il rumore quieto degli zoccoli del mulo legato sullo spiazzo accanto al palmento.
La luce di ottobre è ferma e chiara nel cielo solcato a tratti da qualche passerotto che scocca trilla e dilegua veloce come un proiettile.
Davanti alla porta del palmento verso le otto del mattino la massara prepara la colazione per i pigiatori; taglia grosse fette di formaggio salato e oleoso, dispone le acciughe e i peperoni arrostiti su ruvidi piatti, stacca grandi fette di pane fitto e pesante, riempie un bariletto di vino rosato e limpido che diffonde intorno nell'ora mattutina un profumo inebriante.
I pigiatori con le gambe inzaccherate di mosto e di chicchi di uva spremuti scendono giù dalle scalette di lava e siedono sull'orlo di una tina, cavano fuori i coltelli e cominciano a mangiare piano piano.
Mangiano con gusto e attenzione tagliando strice di pane sui cui adagiano con cura un'acciuga, un pezzetto di peperone.
Il bariletto passa di bocca in bocca, gli uomini lo sollevano in aria, incollano le labbra al buchino laterale e mandano giù tre o quattro sorsate di vino senza versarne neanche una goccia.
L'uva pigiata ridotta molle e succolenta come una pasta viene messa da una parte a palate sotto il grosso e biforcuto 'legno del palmento'. Stanotte alla fioca luce di un lumicino verrà raccolta in un mucchio turrito, fasciata saldamente torno torno da una striscia di rafia intrecciata e vi farà gravare sopra il legno del palmento alla cui estremità verrà sospeso a mezzo di un legno a vite, un grosso macigno quadrangolare o rotondo: 'la pietra'.



Sotto quella stretta poderosa il pastone spremerà le ultime gocce di mosto e rimarrà compresso e compatto che per toglierlo lo si dovrà frantumare a colpi di piccone. Nel pomeriggio arrivano i carrettieri per trasportare il mosto di ieri nelle cantine del paese. Entrano con un fascio di otri sgonfi, li accatastano in un angolo. un uomo seminudo si cala dentro la tina nel mosto tiepido e pungente costellato alla superficie da grumetti di schiuma rossastra; si immerge fino al petto nel liquido dolce che gli frizza sulla pelle come tintura di iodio.
Con una 'quartara' di latta comincia a versare il mosto entro l'imbuto che un carrettiere regge infilato nel collo dell'otre.
L'oltre piatto disteso per terra si gonfia un pochino dolcemente ed ogni quartara di mosto, con un leggero palpito come se si respirasse.
Quando è pieno il carrettiere stringe nel pugno il collo di olona stillante gocce rosse e se lo carica con uno scatto sulle spalle.
Fuori il carro attende e si va riempiendo di otri gonfi pesanti e tremuli.
Il proprietario seduto sull'unica sedia del palmento sorveglia.
Fra breve il ragazzo che torna dal paese sull'asina gli porterà in due piatti avvolti in una salvietta delle polpettine, un uovo fritto, un pezzo di caciocavallo, una bottiglia di vino, la colazione che gli mandano da casa e che egli mangerà sulla pietra del palmento mentre la massara gli sceglierà un grappolo d'uva speciale dura e dolce.



In un angolo è appoggiato lo schioppo.
Una decina di cartucce dai colori vivi e squillanti - rossi arancione verdi - sono allineate su un barile messo all'impiedi e spiccano nel grigiore del palmento con un senso di felicità autunnale.
Nella vigna, accanto alle viti dove è passata la ciurma le foglie giacciono per terra rotte e calpestate.
Le vendemmiatrici curve fra le viti cantano.
Una vendemmiatrice sedicenne dagli occhi neri attacca un motivo con voce squillante un poco acerba come le voci dei conventi e le altre le fanno il coro con i visi in mezzo ai grappoli.
Un ragazzo tira qualche sasso fra i rami di un gran castagno; un grappolone di castagne verdi e spinose precipita con un tonfo, da una crepatura del riccio fanno capolino le castagne lisce e lucenti, di mogano.
Il clima della vendemmia è entrato anche nelle case del paese, ha invaso i terrazzini interni con la vecchia cisterna al centro.
entriamo nel cortile di una di queste case. In un angolo sono ammucchiati rotoli di rafia intrecciati arrossati dal mosto dell'anno scorso e quartare di latta.
Su un vecchio sedile di pietra si vedono coroncine di zolfo e matasse di stoppa. Quattro barili snelli e affusolati come spolette sono allineati contro il muro.
Seduta su un gradino di lava antichissima sotto un gelsomino secolare che riempie l'intera facciata della casa, una servetta mansueta va spaccando con un martello noci fresche liberandole dal loro involucro verde e riponendole via via in un cesto.
La scorza ruvida delle noci appena liberate ha un colore di legno nuovo e grezzo mentre quelle ancora chiuse nel loro involucro si alzano a piramide sulle vecchie mattonelle di terracotta come un mucchio di mele acerbe.




La ragazza ha le mani tenere annerite da quell'umore tenace e amaro delle noci che sarà faticoso togliersi.


Più in là il padrone con gli scarponi ricoperti dalla polvere color cacao delle vigne va pulendo il fucile con uno stoppino imbevuto di petrolio e di tanto in tanto guarda controluce le canne: un tondino di cielo luminosissimo si scorge in fondo alla canna luccicante come un tunnel.
Dalla porta di una stanza adibita a ripostiglio che è stata aperta in occasione della vendemmia, si vedono ammucchiati alla rinfusa oggetti disparati e inservibili alcuni del secolo passato: carcasse di poltrone con le molle rotte allo scoperto come scheletri spolpati, trespoli da letto, lumi spaccati, ceste sfondate, pompe da verderame bucate, sedie senza tre gambe, bocce di vetro istoriate senza collo, orcioli incrinati sin dal 1890.
La dolce luce di ottobre illumina tutto quel ciarpame che non si riesce a buttare via e che aumenta di anno in anno.
Arriva un contadino con un cesto di uva fresca bianca e nera raccolta nella vigna pochi minuti prima.
La sera scende su questa stanchezza tranquilla su questi piatti di lattughe e di peperoni arrostiti, su questi pezzi di caciocavallo piccante che sono apparsi sulle tavole illuminate dalle prime lampadine.
Non sono ancora le sette ma molti di dispongono già ad andare a dormire stanchi morti.
Domani mattina alle quattro alle tre e mezzo si dovranno alzare"