Translate

sabato 29 giugno 2013

STRAGE DI CIACULLI, QUANDO L'ITALIA SCOPRI' LA MAFIA

La Giulietta carica di alcune barrette di tritolo che il pomeriggio del 30 giugno del 1963 esplose all'interno del fondo Sirena, 
nella borgata palermitana di Ciaculli. 
Nell'esplosione persero la vita 7 fra carabinieri, poliziotti e soldati intervenuti per disinnescare l'ordigno.
La fotografia è tratta dall'opera di Michele Russotto
"La Sicilia negli anni Sessanta", edita nel 1989 da Anvied

Il 30 giugno di 50 anni fa l'Italia distratta dalla bolla del benessere economico scoprì cosa fosse la mafia.
Nel pomeriggio di quella domenica infatti una Giulietta colore azzurro imbottita di tritolo esplose all'interno del fondo Sirena, nella borgata palermitana di Ciaculli.

Rottami della Giulietta dopo l'esplosione.
Pochi giorni dopo l'episodio, presero precipitosamente avvio
i lavori della Commissione Parlamentare Antimafia

Persero la vita in sette: il tenente dei Carabinieri Mario Malausa, da un anno comandante della tenenza suburbana di Palermo, di stanza all'interno della caserma "Carini"; il maresciallo della sezione omicidi della Squadra Mobile di Palermo, Silvio Corrao; il maresciallo dell'esercito Pasquale Nuccio; il maresciallo dei Carabinieri Calogero Vaccaro, comandante della stazione di Roccella; il soldato d'artiglieria Giorgio Ciacci; gli appuntati dei Carabinieri Eugenio Altomare e Marino Fardelli, anche loro della stazione di Roccella. 

L'ingresso di fondo Sirena, nella borgata di Ciaculli.
L'esplosione accidentale della Giulietta
fu l'episodio della guerra fra i clan Greco e La Barbera
che fece scoprire all'Italia la dimensione violenta della mafia,
lontana da visioni folkloriche o romanzesche

La notte precedente, un'altra Giulietta era saltata in aria nella vicina Villabate, dinanzi l'autorimessa del boss Giovanni Di Peri; in quell'attentato avevano perso la vita il custode Pietro Cannizzaro ed il fornaio Giuseppe Tesauro. 
L'utilizzo di quelle autovetture per la realizzazione di attentati contrassegnò all'epoca la feroce faida palermitana tra il clan Greco e quello dei fratelli La Barbera.


I funerali di Stato in Cattedrale, a Palermo,
delle vittime della strage.
Nei decenni a seguire,
altre esequie di Stato avrebbero ciclicamente
riproposto a Palermo retorici impegni per la lotta alla mafia 


Lo scontro - come ebbe a scrivere in quei mesi alla famiglia il tenente Mario Malausa - rendeva Palermo una città ai margini della legalità. "In meno di 20 giorni" - riferiva il tenente - "ho avuto ben 7 omicidi. Ho molto, molto lavoro, dato che la lupara e il mitra cantano continuamente". 
La morte dei sette uomini in divisa all'interno del fondo Sirena fu la conseguenza non di un attacco diretto contro lo Stato, ma di un errore nelle operazioni di bonifica che avrebbero dovuto disinnescare la Giulietta.
Il processo alla mafia palermitana celebrato nel 1967 a Catanzaro non riuscì ad individuare i nomi di chi piazzò quell'auto che fece strage: una verità ancor oggi rimasta oscura.
"L'attenzione è rivolta alla bombola sul sedile posteriore dalla quale - scriverà Michele Russotto nel saggio "La Sicilia e gli anni Sessanta", edito da Anvied nel 1989, del quale ReportageSicilia ripropone le prime cinque fotografie del post  - la lunga miccia bruciacchiata fa capire che è stata accesa male perchè si è spenta prima di arrivare a fare deflagrare la bomba. In un paio di minuti il maresciallo Nuccio neutralizza l'ordigno, libera la bombola dal suo supporto e la fa rotolare lentamente lungo la sconnessa mulattiera. Ma sul sedile posteriore della Giulietta c'è un altro ordigno. E' un barattolo pieno di bacchette di tritolo dal quale pende una miccia che non si capisce dove sia collegata. Nuccio è alle prese con questo secondo ordigno. E' il momento fatale. In un attimo il rumore dell'esplosione assorda tutti coloro che sono rimasti davanti al cancello che immette nel fondo di villa Serena. Al posto dell'automobile carica di tritolo si alza un fungo nerastro pieno di metallo e brandelli umani che ricadono per terra e sugli alberi del vicino agrumeto...". 

Altre cerimonie e corone di fiori dopo la strage:
di scena è l'allora
presidente della Regione Siciliana, Giuseppe D'Angelo.
L'occasione è l'inaugurazione di una stele
in onore delle sette vittime.
L'immagine - al pari di quella che chiude il post - è tratta dall'opera
"Antimafia: occasione perduta?",
edita da Gruppo Sicilia Domani nel 1964

La strage di Ciaculli riesce a scuotere un'Italia in cui - come scriverà invece Giuseppe Di Lello nel saggio "Giudici", edito da Sellerio nel 1994 - "la lunga catena di delitti degli anni Cinquanta e Sessanta è servita a tener desta solo l'attenzione degli italiani incuriositi dal folklore di questa strana isola e da questi ancor più strani isolani, mentre la grande maggioranza degli stessi palermitani è rimasta alla finestra, preoccupata non più di tanto per un fenomeno che riguarda solo gli affiliati alle bande criminali e che, comunque, sembra fisiologico per una città che cresce a vista d'occhio, sempre più opulenta".
L'eccidio del 30 giugno 1963 darà un'accelerazione all'avvio - l'8 luglio -  dei lavori della Commissione Parlamentare Antimafia: un'azione di contrasto che nei decenni a seguire sarà costellata da delitti eccellenti, stragi di magistrati e perduranti legami fra uomini politici e cosche.
Oggi la strage di fondo Sirena è relegata fra i polverosi ricordi degli episodi di mafia in Sicilia. 
I familiari degli uomini morti nell'esplosione furono allora risarciti con un milione di euro. 
A due delle sette vittime nell'esplosione della Giulietta - Eugenio Altomare e Marino Fardelli - sono state invece recentemente intitolate la compagnia dei Carabinieri di Rogliano e la ANC di Cassino.  

    

mercoledì 26 giugno 2013

DUCROT, ASCESA E SCOMPARSA DI UNA FABBRICA D'ARTE

Il mobilificio Ducrot in un disegno di Ernesto Basile,
l'architetto che collaborò con la fabbrica palermitana 
nella produzione di arredi artistici

Le immagini riproposte in questo post da ReportageSicilia sono tratte da una pagina pubblicitaria che la prestigiosa ditta palermitana di mobili ed arti decorative Ducrot pubblicò nel 1909.
L'inserzione apparve sulle pagine del supplemento "Natale e Capo d'Anno- La Sicilia e la Conca d'Oro" della rivista "Illustrazione Italiana", e mostra alcuni capannoni di via Paolo Gili, un disegno della fabbrica di Ernesto Basile ed alcuni mobili disegnati per la Ducrot dallo stesso architetto.

In questa e nelle tre fotografie che seguono - siglate F.T. - l'interno di alcuni capannoni del mobilificio, nel quartiere Zisa.
L'azienda porta il nome di Vittorio Ducrot,
un esule francese fuggito dapprima a Malta e poi a Palermo.
L'azienda iniziò la sua attività alla fine del secolo XIX e, dopo vari passaggi di proprietà ed un tentativo di autogestione degli operai,
chiuse i battenti una quarantina di anni fa

Come spiega Simone Candela nel saggio "I Florio", edito da Sellerio nel 1986, "Vittorio Ducrot ( 1867-1942 ) era scappato dalla Francia al tempo di Luigi Filippo per motivi politici. Riparato a Malta, era poi approdato a Palermo assumendo la titolarità di un mobilificio ( già Solei Herbert, poi Carlo Golia ) destinato a diventare famoso non solo per gli arredamenti delle navi della Navigazione Generale Italiana, ma per la produzione su scala industriale, a partire dal 1898-1899, di mobili e arredi su disegni di Basile".


Nel 1903, a testimonianza dei cambi di proprietà, la fabbrica del quartiere Zisa portava la denominazione di "Ditta Ducrot Palermo Successore di Carlo Golia e di Solei Herbert".
Lo sviluppo dei 40 capanonni insisteva su un'area di ben 55.000 metri quadri; la crescita commerciale dell'azienda dell'ex esule - un esperto ebanista - fu rapida. 


Ancora nel 1903, la fabbrica dava lavoro a 200 operai, che sarebbero diventati 445 nel 1911 e 1.000 nel 1913.
Lo sviluppo della Ducrot venne certamente favorito dai buoni rapporti con la famiglia Florio e dalla collaborazione con Ernesto Basile, proseguita sino al 1906, quando alcuni suoi mobili riprenderanno lo stile Luigi XVI e quello delle decorazioni dei carretti siciliani.


Grazie al Basile, il mobilificio della Zisa avrebbe fornito i suoi arredi lignei a Villa Igiea, al Villino Florio, a Villa Deliella e - a Roma - al Palazzo del Parlamento ed al Caffè Faraglia di piazza Venezia.
Non mancano in quel periodo neppure le forniture alberghiere di prestigio, come quelle commissionate dal Grand Hotel San Domenico di Taormina, e, successivamente, dal Castello Utveggio di Palermo.

Arredi domestici in stile "carretto siciliano", opera di Ernesto Basile.
Agli inizi del secolo XX, la Ducrot collaborò con alcuni artisti siciliani del tempo, come Salvatore Gregorietti
ed Ettore De Maria Bergler

In quei primi decenni di attività, l'azienda stringe proficui rapporti di collaborazione con altri personaggi dell'ambiente artistico palermitano.
Salvatore Gregorietti, titolare di una ditta di decorazioni e vetrate liberty, realizzerà ad esempio disegni di tipo popolare destinati ad una serie di mobili laccati.
Il pittore Ettore De Maria Bergler, invece, presterà la sua opera di decorazione di marine, rovine greche e scene di vita pastorale per arredi in mogano.



Il marchio Ducrot, in quel periodo, riceve plausi anche dalla stampa non siciliana. Nell'agosto 1906, "La Tribuna" di Roma scrive che "si è costituito in Sicilia, a Palermo, grazie principalmente a Ernesto Basile, a Vittorio Ducrot ed a Ettore De Maria, il più armonico, attivo, intelligente gruppo di artisti che, dall'architettura al mobilio, dalla pittura alla plastica, provvede al rinnovato decoro della casa italiana".
Nel 1907, il successo artistico e commerciale della fabbrica palermitana venne sancito dalla quotazione in borsa a Milano.




La crescita economica non impedì alla direzione della fabbrica di accettare ancora lavori di più modesta entità, garantendo qualità e prezzi competitivi. "Ciò sanno benissimo - spiegava la Ducrot - tutti coloro che hanno richiesto uno di quei preventivi - sia pure per una camera sola - che la Casa invia con amabile premura a chiunque lo domandi con dati ed indicazioni sufficienti ed in maniera che affidi della serietà del cliente".   
Un'inserzione del 1909 riproposta da ReportageSicilia ricorda che l'azienda Ducrot disponeva allora - oltre ad una sede a Palermo, in Via Ruggero Settimo 35 - di una filiale a Milano, in via Tommaso Grossi 5.
Qualche anno dopo, la fabbrica palermitana avrebbe aperto un negozio anche a Roma, in via del Tritone 138. In quel periodo, la Ducrot poteva contare su un capitale di un milione e mezzo di lire e su un "macchinario americano più perfetto, vasto e completo". 
La stessa inserzione vanta poi i premi ottenuti alle esposizioni artistico-industriali italiane ( Torino, Venezia e Milano ) ed il riconoscimento della medaglia d'oro da parte del ministero dell'Agricoltura, dell'Industria e del Commercio. 
Nel redazionale che accompagna le fotografie, si sottolinea fra l'altro che "la produzione della casa Ducrot sebbene sviluppata con tutti i procedimenti meccanici più rapidi e perfetti, perde il carattere abituale della produzione industriale, che suole essere la riproduzione meccanica e semplificata di pochi modelli invariabili, per acquistare una fisionomia propria ed altamente estetica ed originale per ogni fornitura espressamente studiata, inventata ed eseguita come vero intelletto d'arte. In ciò sta il segreto del suo successo lusinghiero dovunque...". 


Nel periodo fra il 1915 ed il 1918, la Ducrot riconvertì gran parte delle sue attrezzature per la produzione di parti di aerei ed idrovolanti, su commissione dei governi dell'Italia, della Francia e dell'Inghilterra.
Finite le ostilità, il marchio franco-palermitano riprese a produrre mobili ed arredi lignei, come  quattro padiglioni costruiti nel 1931 destinati ad ospitare a Palermo gli ospiti del matrimonio fra Isabella d'Orleans Braganza ed Enrico d'Orleans, conte di Parigi.
Durante il periodo fra le due grandi guerre, la Ducrot arrivò a dare lavoro a quasi 2500 dipendenti. Il calo di commesse, il clima di austerità che avrebbe preceduto le bombe del II conflitto mondiale ed un'eccessiva esposizione bancaria decretarono però la crisi della fabbrica.
Nel 1939 i capannoni della Zisa passarono in mano ad un gruppo genovese; negli anni del secondo dopoguerra, l'attività andò inevitabilmente scemando.
L'agonia della gloriosa fabbrica Ducrot fu segnata da altri inconsistenti cambi di proprietà. 
Nel dicembre del 1969, un centinaio di operai avviò un'esperienza di autogestione, offrendo al Provveditorato agli Studi, al Comune ed alla Provincia di Palermo la propria opera per la costruzione di arredi per le scuole: gli ultimi sussulti di vitalità di un'azienda incapace di rinnovare i fasti dell'epoca liberty o di adeguarsi alle moderne produzioni di massa.
In anni più recenti, l'area dell'ex fabbrica Ducrot è stata parzialmente recuperata dal Comune di Palermo. 
L'ispirazione artistica e l'alacrità degli ebanisti del tempo si sono perduti per sempre; a stento si può immaginare che quei capannoni abbiano ospitato arredi e decori che hanno fatto la storia dell'arredamento italiano. 
   
      

lunedì 24 giugno 2013

SICILIANDO













"Bisogna andarci, in Sicilia, per scoprire una realtà scopribile solo con la personale partecipazione"
Glauco Licata

domenica 23 giugno 2013

I CONTASTORIE, GLI ULTIMI RAPSODI DELL'ISOLA

Un contastorie nella Palermo degli inizi del secolo XX.
La fotografia è opera di Eugenio Interguglielmi ed è riproposta dall'opera "Natale e Capo d'Anno" dell'Illustrazione Italiana,
"La Sicilia e la Conca d'oro", Fratelli Treves, Milano, 1908-1909  

"Una volta pare che il contastorie recitasse e d'inverno e d'estate, almeno a Palermo; e d'inverno - scriveva nel 1957 Ettore Li Gotti in "Il teatro dei pupi", riedito da S.F.Flaccovio nel 1978 -  recitasse al coperto nei magazzini vicino alla Cala o vicino alle porte della città.
Il pubblico era composto più di marinai e di scaricatori, come ci dice Vincenzo Linares nel suo racconto, che è del 1837.
Poi, un pò a Catania e un pò a Palermo e un pò altrove, i contastorie han finito per recitare all'aperto, nei giardini, e quindi secondo la stagione, essendo quella invernale meno propizia.
A poco a poco il pubblico dei marinai è diradato anche perchè le zone del porto ( a Palermo ad esempio ) sono state le più danneggiate e sconvolte dai bombordamenti dell'ultima guerra; e le più trasformate dal piccone risanatore...".
La citazione di Li Gotti permette a ReportageSicilia di dedicare un post alle scomparse figure dei contastorie, che sino a 50 anni fa potevano ancora ritrovarsi in qualche piazza dei centri storici dell'isola.

Il contastorie palermitano Giuseppe "Peppino" Celano, 
che svolse il suo "cuntu"
 nel quartiere del Capo e, in seguito, 

nell'area del nuovo Palazzo di Giustizia.
La fotografia riproposta da ReportageSicilia 

è tratta dall'opera
di Ettore Li Gotti "Il teatro dei pupi", 

edita da S.F.Flaccovio nel 1978

I loro progenitori - gli iniziatori di un genere che offriva motivo di ricreazione ad un pubblico esclusivamente maschile - a Palermo hanno i nomi di "maestro Pasquale" ( che nel 1837 recitava in prosa nel piano di Santa Oliva ), "maestro Antonino", Camillo Lo Piccolo, Camillo Camarda ed i figli Nino e Paolo ( che recitavano per gli scaricatori di porto ), del raisi Turi ( che si esibiva al Foro Borbonico oggi Italico, sopra una sedia ).
In tempi più recenti, la lunga lista di contastorie palermitani citati da Ettore Li Gotti comprende i nomi di Giacomo Mira ( detto Rinaldo ), Salvatore Aiello, Francesco Gagliano, Salvatore Ferreri, zu Masi Tantillo, Francesco Russo ( che recitava al Capo nel 1916 ), Gaetano Lo Verde, Salvatore Palermo, don Tanu ( a Villa Bonanno ), don Peppino Celano ( nel quartiere Capo sino al 1953, ed in seguito dietro il nuovo Palazzo di Giustizia ) e don Tommaso Fiorentino ( che dalle 14 alle 16 si esibiva a Villa Giulia ).


Loro colleghi catanesi furono invece, fra gli altri, Giovanni Cifaloto, don Piddu Giammaria detto Orlando, don Puddu detto Burgutano e Giovanni Marino. 
Col passare dei decenni, prima della loro definitiva scomparsa, il repertorio di questi artisti di strada - basato principalmente sulla storia dei paladini e sul  ciclo dei reali di Francia, ( 340 parti di due ore l'una, cioè quasi 700 ore di narrazione ) -  cambiò ispirazione.
Negli ultimi anni della loro attività, i contastorie avrebbero  infatti dato spazio ad opere come "I mafiusi della Vicaria", "Petrosino il poliziotto italo-americano", "I Vespri Siciliani" o il "Brigante Musolino".
In altri casi, invece, le storie avrebbero preso spunto da recenti e lacrimosi fatti di cronaca, spesso interrotte negli snodi salienti per assicurarsi il ritorno del pubblico, il giorno successivo. 
L'ultimo di questi rapsodi popolari è oggi riconosciuto in Francesco "Ciccio" Busacca di Paternò ( 1925-1989 ), la cui fama riuscì ad oltrepassare i confini siciliani, valendogli una collaborazione aristica con Dario Fo e diverse partecipazioni a trasmissioni radiofoniche.
Di lui - e dell'evoluzione dell'arte e del pubblico dei contastorie - avrebbe così scritto nel settembre del 1962 il giornalista Glauco Licata:

Particolare di un cartellone di contastorie dedicato alle gesta
del bandito messinese Pasquale Bruno,
giustiziato a Palermo nel 1803.
L'immagine, accreditata a Publifoto, è tratta dalla rivista trimestrale "Sicilia" edita nel settembre del 1962 dall'Assessorato Regionale
Turismo, Sport e Spettacolo della Regione Siciliana  

"Quando declama le tristi ed eroiche vicende di Turiddu Carnevale o del bandito Giuliano, piange e trascina alla commozione l'uditorio, composto spesso di qualificati e inizialmente scettici 'curiosi', i quali vengono a volte da lontane città del Settentrione per ricercare col lumicino quel guizzo di poesia popolare che tempi e macchine insidiano ovunque.
Ciccio Busacca - ex contadino analfabeta - compone da sè le strofe che declava accompagnandosi con la chitarra.
Il commento, la morale, è estemporaneo.
A Busacca bisogna chiedere soltanto le epopee di Carnevale e Giuliano.
Ad altri cantastorie - appartenenenti costoro ad una classe tradizionale - bisogna chiedere invece fatti ritenuti dalla tradizione popolare effettivamente accaduti in un trascorso - ma ben circoscritto - periodo storico: il periodo al quale rimandano le avventure di Guerrino il Meschino e quello di Buovo d'Antona.
Il popolo vuol sentirsi ripetere pure questi fatti, retaggio oramai della nazione siciliana". 


Una "Composizione sul contastorie" di Santuzza Calì.
Il disegno è tratto dall'opera "Sicilia" citata da ReportageSicilia
 nella precedente didascalia


venerdì 21 giugno 2013

LA FAVOLA SICILIANA DELLA TARTARUGA LIA

"Lia e il mare", una favola siciliana scritta da Valeria De Domenico ed illustrata da Anna Leotta per casa editrice Lindau.
La storia della tartaruga racconta la sua scoperta del mare
nei pressi  dell'isola delle Correnti,
dopo un avventuroso viaggio attraverso la Sicilia orientale

Il panorama letterario siciliano non ha riservato molto spazio in anni recenti al genere della favola o della fiaba.
Uno dei punti di riferimento rimane così la storica raccolta di "Fiabe, novelle e racconti popolari" pubblicata nel 1875 da Giuseppe Pitrè: trecento narrazioni, parte delle quali - nel 1956 - furono inserite da Italo Calvino nelle sue "Fiabe italiane".
Desta così curiosità la pubblicazione di un volume edito dalla casa editrice torinese Lindau www.lindau.it ed intitolato "Lia e il mare": la favola di una tartarughina che compie un viaggio da un bosco di castagni della Sicilia orientale sino al mare dell'isola delle Correnti, "parecchi chilometri più a Sud di Tunisi".


Autrici della storia illustrata sono due giovani donne siciliane di origini messinesi, entrambe emigrate oltre lo Stretto: Valeria De Domenico - autrice del testo e giornalista di arredamento, design e tecnologia - e Anna Leotta, disegnatrice ed insegnante di disegno e storia della moda.
Fra i crediti da loro citati a fine libro vi sono quelli al professore Sebastiano Burgaretta - storico e studioso di cultura e folclore avolese - e, con molti meno meriti documentari, a ReportageSicilia.
La favola della tartaruga Lia è ambientata fra le province di Siracusa e Ragusa; narra del suo lungo viaggio alla scoperta del mare, grazie al provvidenziale passaggio ottenuto da una cornacchia.
Prima di raggiungere l'isola delle Correnti, Lia potrà scoprire dall'alto i laghetti del fiume Cassibile, le grandi gebbie colme d'acqua, "valloni rocciosi macchiati di verde da cespugli fittissimi, morbide colline sulle quali ondeggiavano distese dorate di grano e piane che i filari di vite e di alberi da frutta decoravano con sottili pennellate di verdognolo, giallino e vinaccia". 


In "Lia e il mare" - grazie anche ai sapidi ed intensi disegni di Anna Leotta - Valeria De Domenico ha espresso una fantasiosa propensione all'invenzione di favole ricche di riferimenti all'ambiente ed ai caratteri isolani.
"L'idea del libro - spiega l'autrice della favola - nasce dall'incontro con Anna Leotta e dai contatti con una casa editrice ( la Lindau, n.d.r. ) che in precedenza aveva pubblicato la favola "Il dono di Natale" di Grazia Deledda.
Grazie anche al ruolo di madre, ho scoperto la mia passione per l'elaborazione di favole ambientate in Sicilia e con riferimenti a simboli della tradizione isolana. Il promontorio di Milazzo ricorda ad esempio la figura di un coccodrillo ed ha offerto l'ambientazione ad un'altra fiaba raccontata ai miei figli.
La tartaruga Lia, invece, è un animale ispirato ad un soggetto tipico della produzione ceramistica di Caltagirone e che rimanda all'idea della longevità.
La nostra intenzione non è stata però quella di limitare il respiro della narrazione al mondo siciliano: l'avventura di Lia e la sua scoperta del mare rappresentano elementi di una storia universale, che rimanda alla possibilità che tutti noi possediamo di inseguire e realizzare i desideri".


L'epilogo dell'esplorazione della tartaruga Lia, termina nei pressi dell'isola delle Correnti: un luogo che diviene simbolo dei desideri negati.
Qui, come scrive l'autrice della storia, "sulla base del vecchio faro qualcuno ha scritto Fortress Europe", un'espressione nata durante la seconda guerra mondiale per indicare le linee di confine presidiate dai nazisti, che gli Alleati si proponevano di espugnare. Oggi quelle parole sono traccia di un dramma dei nostri tempi, quello delle migliaia di immigrati clandestini, per i quali le isole sparse nel mare di sicilia costituiscono il confine sul quale s'infrange la speranza di trovare nel vecchio continente europeo una chimerica felicità...".



venerdì 14 giugno 2013

TUNNEL, L'ALTRO MIRAGGIO DELLO STRETTO

Il tunnel sommerso sullo Stretto di Messina proposto dall'ingegnere inglese Alan Barnett Grant: solo uno dei tanti progetti di collegamento sottomarino rimasti - insieme a quelli del ponte - sulla carta.
Quello di Barnett Grant risale al 1970 e molti anni dopo fu al centro di una accusa di plagio a carico di un Consorzio di aziende italiane, anch'esse ideatrici di un tunnel
fra Sicilia e Calabria.
L'immagine, insieme alle altre del post, è tratta dall'opera di Nello Vincelli "Il problema dei trasporti nell'area dello Stretto",
edita da Editer Roma nel 1982

La notizia di qualche giorno fa racconta di un ennesimo paradosso siciliano: lo Stato dovrà tirare fuori più di un miliardo di euro per non costruire il ponte sullo Stretto di Messina.
A tanto ammonta infatti il risarcimento previsto a favore del Consorzio di imprese che - per effetto dei tagli negli investimenti - ha visto bloccare il proprio progetto: un'opera già costata centinaia di milioni di euro in studi preparatori, consulenze e spese amministrative alimentate dal fantasma di un ponte che - almeno per i prossimi anni - non vedrà luce. 

In questa e nelle fotografie che seguono compaiono le raffigurazioni plastiche del progetto di tunnel progettato da un gruppo di ingegneri ed architetti italiani per l'Iri e l'Italstat: Carlo Cestelli Guidi,
Silvano Zorzi, Alfio Chisari e Ludovico Quaroni
Di progetti per unire la costa messinese a quella reggina si discute e scrive dal 1870, quando l'ingegnere Carlo Navone prospettò l'attraversamento ferroviario dello Stretto tramite una via sottomarina.
Proprio l'idea di un collegamento alternativo al ponte - un tunnel - ha prodotto negli anni altre migliaia di pagine di studi, di elaborati e di ricostruzioni sotto forma di plastico.
Nei primi anni Sessanta questo modello di collegamento stradale-ferroviario fu ipotizzato dall'ingegnere Raffaele Merlini. 


Si trattava una doppia tubazione metallica a doppio involucro, simile a quella prospettata in seguito nel 1976 dagli ingegneri Luigi Croce e Mario Garbellini; entrambi i progetti rimasero un puro esercizio tecnico.
Sei anni prima, un altro ingegnere - l'inglese Alan Barnett Grant - aveva presentato il suo "Ponte di Archimede" sommerso per il traffico ferroviario e stradale: un tunnel galleggiante sospeso a 30 metri di profondità ed ancorato ai fondali da un sistema di cavi. Il progetto di Barnett Grant aveva vinto un premio ex-aequo ad un concorso internazionale di idee promosso dall'Anas, ma nel 1985 - quindici anni dopo quel premio! - il "Ponte di Archimede" venne ritenuto inattuabile: la società Stretto di Messina obiettò che il tunnel avrebbe dovuto superare la profondità di 40 metri e che il suo innesto non poteva insistere sul territorio urbano di Messina. 


Analoga bocciatura subì l'idea approvata in prima istanza dal ministero dei Trasporti nel 1983 di un pool di ingegneri ed architetti italiani ( Carlo Cestelli Guidi, Silvano Zorzi, Alfio Chisari e Ludovico Quaroni ).
Il loro progetto del tunnel - commissionato dal gruppo Iri-Italstat -  era basato su uno studio dell'ingegnere Ulrich Finsterwalder. Il piano prevedeva la costruzione di due carreggiate autostradali con corsia di emergenza e una sede ferroviaria con doppio binario al centro.
Il tunnel avrebbe dovuto avere una forma ellittica con un diametro orizzontale di quasi 40 metri e di oltre 21 metri di altezza: una struttura che fu però giudicata a rischio per l'azione delle correnti marine o per un eccessivo carico accidentale  ( l'impatto di una nave oggetto di un naufragio ).


La soluzione del collegamento sottomarino sembrò riprendere vigore nell'ottobre del 1987, quando l'ipotesi del collegamento stabile fra Sicilia e Calabria tornò d'attualità fra i governanti d'allora. 
Fu allora che un Consorzio di aziende - Iri, Italstat, Saipem, Snam ed Eni - elaborò il progetto per la costruzione di un tunnel anch'esso tripartito: una sezione sarebbe stata destinata al traffico ferroviario, le altre due a quello stradale da e per l'isola. Ciascuna sezione sarebbe stata composta da moduli lunghi 150 metri per una lunghezza complessiva di quasi 23 chilometri. Secondo i progettisti, l'enorme tubo sottomarino sarebbe stato posizionato ad una profondità di 47 metri ed ancorato ai fondali con cavi in kevlar. 
Il costo stimato dell'opera era di almeno 9.000 miliardi di lire, superiore a quello necessario per la costruzione di un ponte. 


Anche questo progetto di tunnel sullo Stretto è nel frattempo rimasto lettera morta, impegnando ingenti risorse finanziarie per gli studi preparatori e di fattibilità.
Del piano di quel Consorzio è rimasta semmai la memoria di una bega legale promossa proprio da Barnett Grant.
Nel 1988 l'ingegnere inglese accusò in un "libro bianco" le società italiane di avere copiato il suo precedente progetto: un presunto caso di plagio ingegneristico che ha aumentato con le inevitabili spese legali i milioni di euro bruciati dai progetti di collegamento fra Sicilia e Calabria.
Questa breve storia della storia dei collegamenti sottomarini ipotizzati e mai realizzati sullo Stretto è stata scritta anche grazie alle notizie riportate dal saggio di Nello Vincelli "Il problema del trasporto nell'area dello Stretto", edito nel 1982 dalla Editer Roma; da quel testo ReportageSicilia ha tratto le fotografie riproposte nel post.  

  
  

giovedì 13 giugno 2013

SICILIANDO














"Realizzavo che la Sicilia non è solo un'isola ma un subcontinente la cui storia variopinta, e i cui paesaggi multiformi, soffocano il viaggiatore che non si sia seduto in disparte per almeno tre mesi a studiare le sue differenti culture e le sue civiltà che si accavallano una sull'altra.
E, proprio per questa certezza, andai incontro al mio viaggio a cuor leggero e senza problemi".
Lawrence Durrell

lunedì 10 giugno 2013

SICILIA, SIC ET SIMPLICITER

La Sicilia fotografata dall'astronauta palermitano Luca Parmitano.
Lo scatto è stato eseguito dalla Stazione Spaziale Internazionale 

Secoli di mito e di pure cronache di viaggiatori, di racconti letterari e di opere cartografiche dedicate alla Sicilia: un enorme patrimonio documentario che ha sviscerato i mille aspetti dell'isola, senza però regalare lo stupore suscitato dalla Sicilia ( sic et simpliciter, verrebbe da dire ) fissata da questa eccezionale fotografia.
L'immagine è stata realizzata a qualche centinaio di chilometri d'altezza dall'astronauta palermitano Luca Parmitano, dal 28 maggio scorso a bordo della Stazione Spaziale Internazionale.
L'isola appare un primordiale spazio geografico, terra disegnata sul rilievo delle acque: luogo fisico dove degrado, mala amministrazione, mafia e bisogno di riscatto sono indistinti ed estranei caratteri riferibili esclusivamente ai siciliani.  
"Questa immagine mi ha colto di sorpresa... mi sono girato ed era lì...", ha scritto Parmitano su Twitter, regalando una fotografia irripetibile alla millenaria iconografia dell'isola.        

domenica 9 giugno 2013

PUPI E PUPARI, LE PAGINE DI LI GOTTI

Cartello che annuncia lo spettacolo di pupi della sera
in un angolo di strada del centro storico di Palermo.
Da notare il foglio con il riassunto e il cartellino con la scritta "oggi" posto sugli scacchi corrispondenti allo spettacolo in programma.
La fotografia risale agli anni Cinquanta dello scorso secolo e, al pari delle altre riproposte nel post,
è tratta dal saggio di Ettore Li Gotti  
"Il teatro dei pupi" pubblicato nel 1957 da Sansoni 
e riedito da S.F.Flaccovio nel 1978

Ettore Li Gotti, palermitano ( 1910-1956 ), ordinario di filologia romanza e tra i fondatori del Centro di Studi filologici e linguistici siciliani, ha dedicato le sue attenzioni anche al teatro dei pupi.
Negli ultimi mesi di vita, Li Gotti scrisse una serie di articoli sull'argomento su riviste e sul "Giornale di Sicilia"; nel 1957, la moglie Maria Stella Carta raccolse quel materiale giornalistico e lo pubblicò nel saggio "Il teatro dei pupi", edito da Sansoni.

Pupi palermitani di Francesco Sclafani, costruiti da Nicola Pirrotta negli anni Trenta e Quaranta dello scorso secolo.
Da sinistra a destra: Orlando, Rinaldo, Ruggiero,
Carinda, Astolfo, Fiorindo, Ferraù, un cavaliere e Carlo Magno

A distanza di 21 anni, quel libro venne ripubblicato con lo stesso titolo dall'editore S.F.Flaccovio, con una prefazione di Giuseppe Cusimano. 
L'opera di Li Gotti - riferita ad anni in cui l'"opra" siciliana cominciava a perdere il suo pubblico - individua la crisi di questa forma di spettacolo popolare già negli anni del primo conflitto mondiale.

Prospettiva del teatro dei pupi di Francesco Sclafani a Palermo

"Li Gotti - notava Cusimano - scriveva nel 1956, quando i pochi teatrini rimasti minacciavano di chiudere in un'atmosfera di generale disinteresse. Egli si preoccupò per questo di raccogliere quante più notizie poteva: in apparenza non diversamente da quanto aveva fatto il Pitrè parecchi anni prima, in realtà ricomponendo i vari dati in una visione più organica capace di dare l'idea delle proporzioni assunte come fatto culturale e sociale della diffusione delle idee e delle immagini presentate sulle scene dell'opra".

Il puparo palermitano Giuseppe Argento

I pupi - sottolineava l'autore del libro - "oggi volgono al tramonto perchè quella sonorità malinconica, eloquente e melodrammatica non trova più il pubblico ingenuo e appassionato di un tempo, non fa più presa su di esso; e se ancora... meravigliano il forestiere ed incantano il ragazzo colla magnificenza delle armature e la vivacità delle vesti e dei pennacchi e con la varietà degli intrecci delle fantastiche storie interessano la loro fantasia, non arrivano più dritti al loro cuore troppo distratto...".

Annuncio pubblicitario del teatro dei pupi
di Giacomo Cuticchio a Palermo,
palesemente rivolto ai turisti

Ettore Li Gotti narra, con la nostalgia di un mondo perduto, la storia siciliana di Orlando e di Rinaldo, di Angelica e di Carlo, di cristiani e mori, del problema delle origini dei pupi fino alla fine degli anni Cinquanta, insieme con quella del mondo vario e pittoresco che li animava e che si muoveva intorno ad essi: il cantastorie, il contastorie, il puparo, il pittore di cartelloni e di carretti, lo scrittore di dispense, i nuovi personaggi creati allora dalla fantasia popolare, le diverse interpretazioni di storie e leggende.

I pupi di Francesco Sclafani in singolare tournée
con il teatro montato su un camion 

Lo studioso individua fra l'altro i prototipi iconografici dei pupi nei guerrieri cristiani rappresentati nel trecentesco soffitto della Sala Magna dello Steri di Palermo. 
Del suo saggio - oggi di non facile ricerca, e che continua l'opera di ricerca condotta decenni prima da Giuseppe Pitrè - - ReportageSicilia ripropone alcune fotografie, gran parte delle quali portano la firma di Vincenzo Brai ( Pubblifoto ).
Di seguito si riportano inoltre uno stralcio del capitolo II, intitolato "L'opra". 

Il pubblico di un teatro di pupi a Palermo
in una fotografia degli anni Cinquanta

"I contastorie sono artisti o mestieranti isolati ( e forse è questo uno dei motivi dell'essere stati essi sempre in minor numero ); i pupari invece presuppongono o riuniscono in sé o hanno intorno a sé tutta un'organizzazione, anzi l'organizzazione più complessa fra le tante attività che riguardano i pupi, quella che meglio le raggruppa e le coordina. Perciò il puparo merita il più ampio discorso e il maggior riconoscimento artistico, quello che si deve ad esempio al regista-attore di una compagnia teatrale, che, nel caso particolare, è il teatrino dei pupi.


Cavaliere cristiano e re saraceno ( pupi catanesi provenienti dal teatro di Natale Meli di Reggio Calabria,
con armature costruite da Puddu Maglio
negli anni Venti dello scorso secolo )


L'opra infatti non può nascere senza il teatro, anzi senza la preesistenza di una struttura teatrale di marionette già bell'e costituita e già in voga; poichè essa non è se non la teatralizzazione marionettistica ( scusate la brutta definizione ) del racconto del contastorie.
Basterà rifarsi alle origini dell'opra per accorgersene meglio: da un lato alle varie rappresentazioni popolari dalle vastasate al tutùi, e dall'altro ai primi passi dell'opra stessa nei grandi teatri catanesi o nelle ampie piazze messinesi, che sono altra cosa dai teatrini palermitani, più piccoli e più raggentiliti e perfezionati nei particolari.

Dama nera e dama bianca, pupi catanesi

E si potrà riconoscere che, con un intuito ed una abilità veramente notevoli, l'oprante ha sfruttato tutti gli elementi che confluivano da varie parti verso il gusto comune del racconto romanzato dei paladini, ha persino ricavato dalla rappresentazione trecentesca e quattrocentesca del cantastorie elementi tecnici ( per esempio la figura del salace buffone, l'accompagnamento musicale fatto da violinisti orbi, la funzione del prologo ) nella forma più recente, quella settecentesca semipopolareggiante persino con inframesse di cantate femminili, con cui erano giunti sino a lui.
E inoltre ha dato prova, specie nella Sicilia occidentale, di una tale varietà e abbondanza di repertorio, di una tale abilità organizzativa ( sempre in relazione alla lentezza dei procedimenti popolari ), che si riuscirebbe a fatica a credere avvenute in sì breve tempo tante trasformazioni, che si continuano tuttora.
E continuano perchè ( giova ripeterlo! ) il puparo è sempre un artista, e le sue invenzioni, grosse o piccole che siano, hanno la genialità e le freschezza di quella degli artigiani ancora non sopraffatti dalle esigenze della età della macchina e dell'automazione..."