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martedì 30 aprile 2013

IL SORRISO STRAPPATO DI PIO LA TORRE

Un'immagine di Pio La Torre, il dirigente del PCI
ucciso a Palermo il 30 aprile del 1982
insieme all'autista e collaboratore Rosario Di Salvo.
Le immagini di questo post sono tratte dal volume "Pio La Torre, 30 aprile 1982, ricordi di una vita pubblica e privata", edito nel 2007 dal Centro Studi ed Iniziative Culturali Pio La Torre di Palermo

Era il 30 aprile del 1982 quando il dirigente del Partito Comunista Italiano Pio La Torre venne ucciso a Palermo in un agguato terroristico-mafioso. 
Con lui i sicari di Cosa Nostra uccisero anche l'autista e militante del partito Rosario Di Salvo.
A distanza da 31 anni da quel duplice omicidio, che anticipò di cinque mesi l'agguato a Carlo Alberto dalla Chiesa, anche la verità sull'uccisione di La Torre e Di Salvo non è stata compiutamente svelata dalle indagini della magistratura.  
Nel 1997 a Firenze, Salvatore Cucuzza - un killer mafioso dissociatosi da Cosa Nostra - si attribuì l'esecuzione materiale del duplice delitto; la sua deposizione non è però servita a fare davvero luce sul movente sull'assassinio di Pio La Torre, il cui impegno politico è rimasto legato alle prime leggi di confisca dei beni mafiosi ed ai movimenti pacifisti che in Sicilia si opposero all'installazione dei missili americani Cruise a Comiso.
Così, per l'uccisione di un politico onesto e di un suo fedele compagno di lavoro valgono ancoro le parole di Giovanni Falcone.
Prima di essere ucciso dal tritolo di Capaci, nel 1992, il magistrato fu spinto a riflettere "sull'esistenza di strutture segretissime all'interno di Cosa Nostra, con finalità ancora ignote, ma certamente di enorme portata", e fargli dire che omicidi come quelli di Pio La Torre... e per certi versi, di dalla Chiesa... sono fondamentalmente di natura mafiosa, ma al contempo sono delitti che che trascendono le finalità tipiche di una organizzazione criminale, anche se del calibro di Cosa Nostra. Qui si parla di omicidi politici, di omicidi, cioè, in cui si è realizzata una singolare convergenza di interessi attinenti alla gestione della cosa pubblica; fatti che non possono non presupporre tutto un retroterra di segreti ed inquietanti collegamenti, che vanno al di là della mera contiguità e che debbono essere individuati e colpiti se si vuole veramente voltare pagina".

Un comizio di Pio La Torre in un quartiere popolare di Palermo.
L'immagine risale alla fine degli anni Sessanta



  

I RACCONTI MESSINESI DELLA RECUPERO MAUGERI

"Ballate siciliane" è l'opera più famosa della scrittrice messinese
Lillina Recupero Maugeri.
Nei 17 racconti si descrive in prevalenza la vita 

dei paesi dei Peloritani 
negli anni immediatamente successivi 
al secondo conflitto mondiale.
ReportageSicilia ripropone uno di quei racconti, intitolato "Epopea elettorale" ed ambientato a Monforte, dove la scrittrice riparò per scampare ai bombardamenti che colpirono Messina

Anche la letteratura può essere reportage, specie se il contesto di un racconto attinge al bagaglio dei ricordi personali di luoghi e persone conosciuti dall'autore.
Il dato vale fortunatamente in maniera significativa per la Sicilia, isola di scrittori e narratori ben al di là dei nomi più conosciuti al grande pubblico.
Fra gli autori di quella che una vecchia antologia scolastica definirebbe "letteratura minore" - a volte secondo un giudizio di notorietà, piuttosto che di critica - c'è la messinese Lillina Recupero Maugeri.
Come spesso capita a ReportageSicilia, la scoperta di uno dei suoi libri ( forse il più significativo ) - "Ballate siciliane", edito nel 1975 da Sicilia Nuova Editrice, Milazzo-Palermo, con in copertina un disegno del pittore barcellonese Nino Leotti - si deve al piacevole tempo trascorso fra librerie antiquarie e bancarelle di vecchi volumi.
La biografia dell'autrice è piuttosto scarna. 


Una fotografia della scrittrice, assistente universitaria 
di filologia romanza
e letteratura italiana all'Università di Messina  

Figlia del direttore amministrativo dell'Ateneo di Messina - Antonio Maugeri - e quindi moglie del senatore socialista Francesco Recupero, fu pittrice e scrittrice legata alla narrazione dei paesi siciliani dei Peloritani, della costa jonica e di Palermo; nel capoluogo dell'isola, Lillina Recupero Maugeri aveva frequentato per anni il Conservatorio, prima di tornare a Messina e diventare assistente universitaria di filologia romanza e letteratura italiana.
"Ballate siciliane" è una raccolta di 17 racconti: piccoli quadri di vita quotidiana legata a personaggi, eventi e comportamenti tipici del mondo paesano di una Sicilia immersa in un clima ancora ottocentesco.


Un'immagine di Tindari, pubblicata nel primo volume dell'opera "Sicilia",
edita da Sansoni e dall'Istituto geografico De Agostini nel 1962.
La fotografia è attribuita a Stefani 

Il mondo narrato dalla Recupero Maugeri fa quindi riferimento, spesso con una garbata ironia - scrive Roberto Salvadori -  "alle chiacchiere fra i notabili locali, alle piccole faide perenni, ai tipi pittoreschi, al paternalismo ipocrita dei ricchi ed all'ossequio dove affiora la fierezza dei poveri".
"C'è, in questi racconti - si legge quindi nella prefazione al libro dello storico Santi Correnti - tutta la vita del paese, inteso come categoria mentale, e perciò dotato di una eterna vitalità".


Santo Stefano di Camastra, in una seconda fotografia di Stefani
tratta dall'opera citata in precedenza 

In questo post, ReportageSicilia ripropone la prima delle 17 "Ballate siciliane", intitolata "Epopea Elettorale" ed ambientata nell'agosto del 1943 a Monforte: qui la Recupero Maugeri aveva trascorso gli anni difficili della guerra, al riparo dai bombardamenti che squassavano Messina.
Nel racconto, si narra il clima che accompagnò a Monforte le elezioni comunali, negli anni successivi al termine del secondo conflitto mondiale: pagine che rievocano a livello paesano la storica contrapposizione fra democrazia cristiana e partito comunista ( che nella narrazione diventano il partito dei Crociferi e la Fronda d'ulivo con tre teste ). 

"La guerra agonizzò che l'aria rovente d'agosto era compressa da anticipazioni vaghe ed inquietanti. Da Monforte si guardava verso Messina inghiottita dal silenzio, dopo l'apocalisse dei bombardamenti; si scrutava la strada provinciale, corrosa dai cingoli tedeschi, diretti, prima con ordine e potenza, verso ovest, poi, in confuso e precipitoso disordine, e in numero poco apprezzabile, verso est.
Intorno al caffè di Baracchetta s'intrecciavano supposizioni e interrogativi d'ogni genere:
"Sbarcano?" si chiedevano i monfortesi. 
"Macché! I tedeschi, dove li metti?"
"La radio inglese ha detto che ci sono di già tutti, gli americani con i negri, i francesi coi marocchini, gli inglesi con se stessi: almeno la smettessero con quel tamburo del malaugurio..."
I siciliani non subivano invasioni soltanto da qualche secolo e un'ammonitrice saggezza consigliò di nascondere i beni rimasti. Nello stesso tempo furono cremate divise fasciste, fiocchi, scudetti, bottoni.
In casa del medico don Giacomo Ciardello affluiva lo stato maggiore dei cervelli locali; alla sua esperienza facevano capo i dubbi che s'agitavano nelle coscienze dei più.
Il suo campiere, don Tanu, un gigante biondo, riaffiorato certamente da geni normanni, diceva alla compagnia che gli stava intorno:
"Quando arriveranno li 'ngresi non potrò che dirgli benedicite!, tanto, a me" - e rovesciava le tasche - "questo possono prendere... Don Nicola, piuttosto" - e si rivolgeva al potestà Cumino - "sì che ha da temere, a causa dei fasci d'oro sul cheppì e sulle spalline...".
"Villano disfattista" - inveiva l'altro - "ringrazia il tuo padrone se non mangi confino da colazione a cena...".
Don Giacomo Ciardello rigirava il suo torace massiccio sulla poltrona di vimini: "Silenzio vi ci vuole, e prudenza. Questo è il momento di pensare a ben altro".
Il marchesino Pontedoro sussultava nel triplo mento congesto:
"Ma come si fa a non parlare, come si fa... se c'è la quiete che precede la tempesta! Li pensate i marocchini, don Giacomo? Chi ci difenderà se non c'è Re nè regno! Siamo nella mani di Dio... Voi, don Giacomo, che siete il nostro patriarca, consigliateci... consigliateci...".
"Marchesino" - rispondeva il Dottore - "non c'è miglior posto delle mani di Dio e, dato che vi ci trovate, il meglio da fare è d'acquietarvi..." .
Non trascorse molto che l'alba rivelò un primo plotone di americani che dormivano morbidamente sui sassi sel sentiero.
In men che non si pensi le porte furono sbarrate, le ragazze spinte in fretta e furia nei catoi, i magazzini.
Ai balconi dei Pontedoro, visibili da ogni dove, furono sbandierate lenzuola in segno di resa, e si attese con trepidazione il chiarirsi degli eventi. Ma non accadde nulla, se si eccettua che, all'intimazione di consegnarli, fucili, pistole e armi d'ogni genere andarono a concimare le radici degli ulivi più grossi, e che si mangiò pane bianco, troppo bianco per essere pane. 
Quella notte, dalle corazzate alleate, al largo di Milazzo, fu lanciato un vituperio di cannonate che, scavalcando i Peloritani, stridettero sui monfortesi, rannicchiati nei letti a pregare calorosamente il loro protettore San Giorgio, affinchè i vini gagliardi di Sicilia non facessero per caso degradare d'una sola linea la mira ai cannonieri.
Dopo di che, i liberatori non aggiunsero fastidi: avevano altro da pensare, mentre, arrampicandosi su per la penisola, perseguivano quelle teste dure, ma frangibili, dei tedeschi.

Quando la guerra cessò di infierire sulla Sicilia, come rondini al nido tornarono gli sbandati di tutte le armi: i talloni sanguinanti per il gran camminare, le nudità coperte a via di spilli e legami, ognuno con una storia di morte da raccontare.
Dimenticata ogni paura e ogni considerazione sulla fragilità del vivere, nei monfortesi si risvegliarono gli odi di famiglia, abilmente camuffati da beghe politiche.
Anche loro, avendo cantato per più di vent'anni, sempre in coro, sempre lo stesso motivo, pensarono che era giunto il momento di tentare degli 'a solo'. E la malattia politica esplose violenta alle elezioni comunali.
L'elettorato si divise in una maggioranza detta dei Crociferi, e nell'opposizione, che si appostò dietro il contrassegno della 'Fronda d'ulivo con tre frutti'. In mezzo fluttuarono gli indecisi, provenienti da tutte le nostalgie.
Al Rosario, piano che s'apre al respiro della valle, dove è dolce sostare la sera, l'avvocato Maggio così commentava, con altri, il momento politico:
"Appare lampante che che i più notevoli candidati sono, da una parte, don Giacomo Ciardello, coi Trombetta, i Maccherone, i Trifilò e con la sua più fedele clientela; dall'altra parte il buon Dio, molto umilmente rappresentato dal nipote di padre don Lucio, Ninetto Cardò; un simbolo, dietro al quale smaniano di legittime preoccupazioni, oltre al venerabile zio, l'arciprete Scuzzera, con la matura signorina Catina, presidentessa delle 'Figlie di Maria', e un folto contorno di sagrestani, fedeli, donnette dell'ora del Rosario e penitenti".
Ninetto Cardò tutto s'aspettava dal destino tranne che divenire un'insegna; ruolo non difficile, in verità, che non gli fu fatto pesare.
"Non puoi perdere" - lo rincuorava il reverendo zio - "solo pochi folli hanno ardito porsi contro l'Eterno. Noi siamo con Lui e con la Santa Croce...".
E già intorno a Ninetto Cardò una piccola folla s'andava tanto più infittendo quanto più si faceva strada la convinzione che il sindaco sarebbe stato lui, lui soltanto. E non pochi toccavano con mano la realizzazione di certi non manifesti progetti.
Non che il medico Ciardello avesse un men nutrito seguito: egli che accarezzava idee di sinistra, stava a cavallo di due mondi, separati da inconciliabili ed ancestrali rancori, per avere sposato donna Vannina, una 'spillacchia' figlia di un signorotto.
Divìde et impéra: don Giacomo avrebbe potuto con salomonica saggezza imperare, se non l'avessero avversato gli inserimenti nocivi dei parenti e quello della moglie che, con una personale politica e col battito pretenzioso dei suoi fianchi, ritmava e condizionava i suoi propositi. E non si faceva illusioni: 
"Quelli hanno dalla loro tutti i Santi, accaparrati al completo" diceva riferendosi al partito dei Crociferi "e a me non restano che diavoli... Guardatela, donna Catina, la capomastra della confratenità: da sola può fare eleggere tutta una Camera...".
La signorina Catina, colossale e compunta, col rosario e la veletta nera perennemente stretti sotto il braccio, in ogni ora del giorno pronta per le devozioni, catechizzava a fior di labbra i fedeli: "Donna Rò...o donna Rosa, non macchiatevi di disobbedienza al Signore, chè scomunica vi fate!". 
Poi sussurrava: "E' la gente del demonio, quella del dottore...guardate la moglie di Trombetta, scollacciata che è una tentazione: quella, il peccato ce l'ha nel più profondo...".
"Dove...dove?" chiedeva l'altra, incuriosita.
"Nel cuore... nel cuore..." rispondeva donna Catina "dove altro volete che stia il peccato?" E la lasciava incredula e perplessa.
Poi andava alla canonica per spiegare la dottrina: "Bambine, cantiamo Viva Gesù... Viva Gesù... Un momento, ditelo alle vostre mamme di votare per Gesù, numero dodici..." e riprendeva la cantilena "Viva Gesù, Viva Gesù...".
Di ritorno, passava dalle comari: "Sia lodato... comare Terè... Sia lodato... comare Nunziata..." e, abbassando la voce fino ad un soffio sul viso delle altre: 
"Pensate un pò se quelli dell'ulivo, tutti nemici giurati di Dio, possano avere faccia di chiedere il voto a voi, che siete delle sante... Con chi si è messo don Giacomo? con un branco d'anime perse! E lui forse è sposato in chiesa con donna Vannina? E il brigante Portello, di chi era cugino? E la figlia di donna Tàlia Maccherone, di chi è figlia? Mia no, di certo... Deus misericordia, Deus misericordia..." e se ne andava portandosi dietro la sua potenza.
Il giuoco politico allignava come nuovo passatempo tra le le donne, costrette da una domenica all'altra in un quadro di solite voci, di passi uguali, tra il malinconico acciottolìo dei muli che apre e chiude il giorno, per cui si può odiare anche il sospetto di rimanerci dentro per tutta la vita. 
Immerse nella lotta, rinsanguavano chiacchiere e malignità, sfogando, così, bili inghiottite da tempo.
Don Giacomo Ciardello si sentiva annegare nel suo stesso dubbioso elettorato, di fronte allo scoglio dei potenti rivali. 
Gente come i Maccarrone, i Trombetta e i Trifilò, lo sostenevano non tanto per convinzione, quanto per il piacere d'avversare i bigotti, loro nemici naturali, ritenuti detrattori e malelingue.
la casa di don Giacomo era divenuta un 'riconco' di notizie. 
Il cuore del medico sussultava un pò verso l'alto, un pò verso terra, nel demoralizzante balletto che aveva come centro la sua persona.
"I Cavatòi girano verso i Crociferi...".
"Don Nino, il ferraro, è andato in parrocchia a confessarsi...". 
La lotta rivelò toni drammatici, specialmente quando lo zelante arciprete giunse ad impedire che , pur con la punta della sua elegante scarpetta, donna Tàlia Maccherone entrasse in chiesa, a causa delle sue braccia nude fino al gomito.
"Non adontatevi, signora Tàlia..." la consolava il Trombetta "pochi centimetri delle vostre braccia stuzzicano quanto tutta la Venere di Milo, e l'arciprete è così sensibile...". 
Ma Nenè e Checco Maccherone, per l'oltraggio subìto, imperversavano, minacciando carneficine. 
Don giacomo sentiva scivolarsi i voti tra le dita. "Le cabine dovranno pur parlare..." sospirava. "Abbiamo nemici, ma anche amici, di talloni di Achille, gli avversari non difettano...".
E rievocava una faccenda riguardante una trazzera che lo zelo di alcuni amministratori aveva cementato con cura, come al passeggio di via Maqueda a Palermo.
L'umido e il muschio avendo invischiato i muli, fino a farli stramazzare, erano nati l'irriducibile scontento dei loro proprietari e frequenti imprecazioni: 
"L'Immacolata Concezione ha da pensarci... Spillacchi mangiatori dei poveri! Si lisciano il terreno di sotto ai piedi, davanti alle loro case, e a noi il carico va a rompicollo! Ma, non potrebbero lucidarsi le corna... piuttosto?".
Anche queste lamentele facevano da sostegno politico a don Giacomo. Peraltro, i comizi fluivano con generale soddisfazione e massima eleganza. Gli oratori si lanciavano, come palle da tennis, accuse e difese, discutevano problemi d'armoniosa e comoda convivenza, con prospettive di rinascita cittadina, costantemente declamando magagne di parte opposta, vere o inventate, ignote o palesi agli occhi degli esterrefatti ascoltatori.
La sera precedente le votazioni, i Crociferi vollero dare il colpo di grazia a quelli della Fronda, mettendoli di fronte al quadro di San Cono, che veniva a dargli una mano emigrando, per sentieri da conigli, da una parrocchia all'altra.
Il sovrumano avversario, portato in trionfo da braccia robuste, avanzava suscitando, sulle pendici lontane dei monti, falò, preghiere, suoni di ciaramelle.
Nessuno avrebbe potuto travisare il divino messaggio, pensava l'arciprete, e sentiva alitare la vittoria sulla sua testa, e, se non fosse accaduto quanto accadde, l'avrebbe vista d'un sùbito appollaiata nella sua spalla.
Giunti ai limiti geografici della loro parrocchia, i portatori di Pellegrino si rifiutarono di consegnare il quadro a quelli di Monforte: loro, e soltanto loro, dovevano giungere in piazza tra i mortaretti e la musica.
La questione, sorta, come fungo malefico, là dove era avvenuto l'incontro tra canti d'alleluia, finì in una generale bastonatura, alla presenza della sacra Immagine scaricata frettolosamente al bordo della strada.
Per quanto i monfortesi avessero vinto la giostra, il loro apparire in piazza in un grumo d'abiti sbertucciati, d'occhi pesti e di crini selvosi, fece calare di colpo il livello dei voti al partito dei Crociferi.
Né il brusio dei rosari, le campanelle suonate con lena, la babele dei venditori ambulanti, le avide bevute di gassose, poterono tamponare il salasso. Nonostante ciò, in casa del medico Ciardello, addizionati i malumori, e sottratte le defezioni, si dileguavano ad una ad una le ingannevoli speranze che precedono il trapasso.
"Perderemo", sospirava don Giacomo... "ma guardando in faccia il nemico fino all'ultimo".
L'indomani, senza premure, i monfortesi si recarono alle urne. per le strade un silenzio gravido d'interrogativi, incontri e saluti diplomatici, ognuno con la propria intenzione ben ferrata dentro lo stomaco.
La signorina Catina accompagnava, portandoli quasi di peso, vecchietti reperiti nei dimenticatoi, che rinverdivano in questo modo la loro presenza tra i vivi.
Alla sezione, i fedeli di Ciardello cernevano il grano dal loglio: Lorio il lungo, da scrutatore, scrutava veramente, attraverso gli spifferi della mal connessa cabina, e nulla gli era più manifesto degli altrui segreti. E li elencava a Checco Maccherone che porgeva le schede: "Questo sì, questo no...", e il maggior numero era dei no.
Entrò la 'Nchiola, le guance infuocate sulle sei o sette collane, il seno esplodente nel piacere della rivalsa sulla pubblica condanna che le pesava sui fianchi. Guardò tutti con piglio spavaldo. "Io non faccio misteri... voto corona!", disse con arroganza.
Un vecchietto, scrutatore dei Crociferi: "Voi siete lo scandalo del paese..." le obiettò "e il Signore non lo vuole il vostro voto"
una risataccia fu la risposta. Quando venne fuori dalla cabina, sbandierando la sua scheda, lorio il lungo le disse: "Ma come, anche col 'riuzzo' vi siete coricata?" e la guardò con compatimento, mentre quella se ne andava, sculettando rabbiosamente.
Poi l'ingresso fu occultato dall'imponenza di don Cosimo Fiore, maresciallo dei carabinieri a riposo, un riposo che durava quasi dal tempo di Umberto I. 
Era molto amico di don Giacomo e a lui devoto per il perenne conforto alla sua ormai malcerta salute. 
Gli aveva promesso il voto, ma era stato carabiniere del re, ed in tal veste aveva prestato solenne, anche se remoto, giuramento. Nell'uscire, il maresciallo fece un gesto d'intesa a don Lorio, come per una congiura; l'altro gli rispose con un amaro sorriso, sussurrando: "Che faccia di granito... anche lui si è coricato con sua maestà, non me lo leva di testa nessuno!...".
I voti, in casa Ciardello, stillarono, finchè si spensero.
A don Giacomo, un pò per la fatica un pò per la boccata di fiele, venne un gran galoppo di febbre; donna Vannina era agli attacchi nervosi, urlava maledicendo il prossimo vicino e lontano.
Natàla, la serva, spremeva limoni per tutti, di tanto in tanto cambiando il fazzoletto umido alla fronte di don Giacomo.
In cima alla collina, per le vedette che aspettavno il segnale del 'solfarolo', dovendo dare il via ai fuochi per l'evviva, nello strano caso di una vittoria, ci fu un nulla di fatto.
Intorno a don Giacomo, come per una veglia funebre, s'alternavano i Maccarone, i Trifilò e gli altri della Fronda d'ulivo con tre frutti. Finchè, dopo avere trangugiato il Gloria dell'arciprete, suonato a tutto trasporto di campane, e i colpi dei mortaretti in piazza, fu lasciato coi suoi pensieri.
Donna vannina mugolava: "Non me lo aspettavo questo tradimento, ladri della mia pace!... Alla prossima influenza ci vedremo...".
E giù limonate, a non finire."


Veduta aerea di Milazzo, in una fotografia tratta dall'opera del TCI "Marine del Tirreno e delle Isole",
edita a Milano nel 1964.
Sotto, una firma autografa della Recupero Maugeri




   


  


  


     

mercoledì 24 aprile 2013

COSTE DI SICILIA, SOUVENIR PRIMA DEL CEMENTO

La costa tirrenica palermitana di Trabia.
Nella fotografia aerea pubblicata nel 1964 dall'opera del TCI
"Marine del Tirreno e delle Isole",
il litorale preserva ancora i suoi tratti naturali, prima che cemento ed asfalto ne alterassero profondamente la stessa fisiononomia.
Le altre immagini presenti nel post - anch'esse tratte dalla guida del TCI - dimostrano lo stravolgimento subìto dal territorio costiero siciliano negli ultimi 50 anni 

“Il mare esercita oggi un richiamo sempre più fascinoso.
Italiani e stranieri si riversano a milioni nei mesi estivi sulle spiagge della Penisola a cercarvi salute, forza e gioia di vivere in libertà.
Il fenomeno ha portato con sé tali mutamenti, ha coinvolto tali e tanti interessi, da incidere sulla stessa fisionomia delle nostre coste.
Stazioni già note e celebrate hanno moltiplicato le loro attrezzature; numerosi altri centri balneari sono stati messi in valore o addirittura creati ex novo; l’amore per la natura incontaminata spinge alla continua ricerca e alla scoperta di nuove spiagge”.

La costa siracusana di Avola, su un'altura del golfo di Noto.
La fitta vegetazione che separa il centro abitato dalla spiaggia
faceva allora meritare alla località
la definizione di "popoloso centro agricolo

La lunga spiaggia messinese di Capo d'Orlando,
ai piedi dell'omonimo promontorio

Era il 1964 quando Ferdinando Reggiori, presidente del Touring Club Italiano, affidò queste sue riflessioni alla presentazione del volume “Marine del Tirreno e delle Isole”, dedicato quindi anche alle località costiere siciliane.
La riproposizione da parte di ReportageSicilia di alcune fotografie di luoghi isolani contenute in quella guida evidenzia i cambiamenti che l’edilizia del mare ha provocato sull’ambiente siciliano.

La spiaggia di Gela, ancora in grado di attribuire alla cittadina nissena la qualifica di "frequentata stazione balneare".
All'epoca di questa fotografia, Gela viveva un periodo
di intenso sviluppo petrolifero,
che negli anni successivi avrebbe quasi del tutto compromesso
l'antica bellezza ambientale

Il lirorale trapanese di Castellamare del Golfo,
con l'ampia spiaggia lambita dai terreni agricoli.
Lottizzazioni e sviluppo dell'edilizia delle "seconde case" - spesso frutto di cantieri abusivi - hanno cancellato
il rapporto di continuità naturale
fra terra e mare

Se è vero che “l’amore per la natura incontaminata” ha accresciuto l’interesse verso le bellezze costiere, è anche vero che la Sicilia ha pagato in quegli anni un prezzo pesantissimo alla crescita incontrollata delle seconde case al mare e delle infrastrutture – strade, porti turistici, dighe – sorte per sostenere lo stravolgimento del territorio.

Il litorale messinese di Mortelle, con il lago di Ganzirri
e la costa di Messina sullo sfondo
Per comprendere la trasformazione dell’ambiente, basta osservare la fotografia della costa di Trabia; quella di Torre Caldura, a Cefalù, o quelle del litorale di Castellammare del Golfo o di Avola.
La spiaggia della Presidiana e l'area di Torre Caldura, a Cefalù.
La località palermitana - dagli anni Sessanta ai nostri giorni - ha stravolto il suo profilo costiero, soprattutto a causa della costruzione di un porto turistico e delle lottizzazioni edilizie

Le immagini d’inizi anni Sessanta restituiscono il volto di luoghi ancora senza vistosi scempi intensivi, e dove alle spalle delle spiagge si distendono terreni agricoli e aree di macchia mediterranea.
Di lì a qualche anno, le coste siciliane sarebbero state assaltate dalle lottizzazioni, dai cantieri e da quel “precariato cementizio” ( espressione utilizzata nel 1985 da Michele Serra ) spesso abusivo.
Fra speculazioni mafiose e ricorrenti sanatorie edilizie, nel 2001 uno studio del WWF avrebbe attestato che il 63 per cento del litorale isolano era occupato abusivamente.
Tutto ciò, costituisce oggi la prova della mancanza di governo del territorio, di programmazione, di sviluppo armonico - e, infine, di assenza di “quell’amore per la natura” - che ha portato il siciliano a rovinare per sempre la costa di cui avrebbe voluto godere.




domenica 21 aprile 2013

PALERMO E LA CUCINA IN STRADA


In molti quartieri popolari di Palermo è ancor oggi possibile acquistare pesce e farselo arrostire a legna su grandi griglie all’aperto; per trovare questi luoghi, basta alzare il naso per aria e seguire il tipico odore del pesce in cottura sulla brace.
La pratica riguarda specialmente sgombri e tranci di tonno, e contribuisce ad arricchire la ricca tipologia del fast-food palermitano di strada.
La tradizione – come dimostrato dalla fotografia riproposta da ReportageSicilia – resiste da decenni: l’immagine è tratta dal settimanale “Cronache” del 31 maggio del 1955 ed accompagna un reportage palermitano di Manlio Cancogni dedicato alle imminenti elezioni politiche regionali.
L’anonimo fotografo realizzò lo scatto in un quartiere del centro storico, forse nella zona del mercato della Vucciria.
Oltre a quello che indica il civico dove è possibile arrostire il pesce, un altro cartello pubblicizza la trattoria “al Gambero” e le specialità casalinghe della pasta al forno e del brodo di carne: ancor oggi piatti irrinunciabili della cucina popolare palermitana e tali da sopravvivere alla trattoria stessa, chissà da quanti anni scomparsa.

SICILIANDO














"Un'isola non abbastanza isola: in questa contraddizione è contenuto il tema storico della Sicilia, la sua sostanza vitale"
Giuseppe Antonio Borgese

venerdì 19 aprile 2013

L'ETNA DI GUSTAVO TOMSICH

Lo spettacolo dell'eruzione sul versante Nord Est dell'Etna,
nel luglio del 1960.
La fotografia - come le altre del post -
è tratta dalla rivista "Amicizia" del tempo
e corredò un reportage del giornalista e scrittore Gustavo Tomsich

Le fotografie riproposte nel post da ReportageSicilia sono tratte dalla rivista mensile “Amicizia”, edita a Milano nel luglio del 1960. 
Le immagini ritraggono tre tipologie di attività artigiane ed ambulanti allora ancora diffuse in alcuni paesi etnei: quelle dei “pirriaturi” ( i cavatori di pietre laviche ), dei “nivaroli” ( i raccoglitori di neve ) e degli acquaioli.
L’autore del reportage – intitolato “Gente dell’Etna” –  fu il giornalista e scrittore di origini slovene Gustavo Tomsich, a suo tempo collaboratore del “Tempo settimanale” e dell’”Illustrazione italiana”; a lui bisogna forse attribuire anche le fotografie che corredarono l’articolo.
Tomsich visitò l’area etnea in coincidenza con l’eruzione che in quei giorni – come avrebbe riferito un cinegiornale dell’Istituto Luce – produsse “massi grandi come autobus” nella zona del cratere e sui versanti Nord Est: nella prima pagina del reportage, una fotografia documenta “il gigantesco fungo di vapori e lapilli lanciato dall’Etna il 17 luglio, visto da Zafferana”.
Malgrado la violenza e la spettacolarità dell’evento vulcanico – testimoniata dalla fotografia di “gruppo di turisti e gente del luogo” in osservazione del fenomeno – Tomsich non perse l’occasione per documentare la quotidiana vita di lavoro alle pendici dell’Etna. 
“Della sua gente – scriveva il giornalista – si parla soltanto quando un’eruzione ne minaccia le case; dei suoi problemi, neppure in queste circostanze. E’ gente che di problemi ne ha comunque molti, ma non li sente eccessivamente perché il più grosso è il fatto stesso di vivere su un vulcano che non ha funzione decorativa come tanti altri, e ai cui imprevedibili capricci nessuno può porre rimedio. E quando un guaio di tale portata è accettato impassibilmente, gli altri sono rose e fiori…”.
Di quella gente che lavorava intorno al vulcano, Tomsich indica anzitutto gli acquaioli.

Nel suo racconto sulle attività intorno alle pendici dell'Etna,
Tomsich descrisse le figure di alcuni protagonisti
della vita quotidiana del tempo: primo fra tutti, l'acquaiolo

“Vanno con i loro variopinti carretti-botte a prelevare l’acqua alle rare sorgenti e la distribuiscono un po’ in tutti i paesi, da Nicolosi a S.Alfio la Bara, da Mascalucia a Zafferana. C’è anche chi la compra anche dove esiste l’acquedotto perché usava farlo in passato".
A seguire, il reportage illustra il lavoro dei “nivaroli”.

Un "nivarolo" estrae blocchi di ghiaccio alle alte quote del vulcano:
saranno poi trasportati  a bordo di carretti sino ai principali paesi etnei e utilizzati - noterà Tomsich - anche per allungare "i forti vini dell'Etna".
La diffusione dei frigoriferi porterà presto alla scomparsa di questi protagonisti della vita economica locale 

“Per il medesimo motivo, la neve del vulcano è preferita al ghiaccio prodotto industrialmente… Ogni mattina verso mezzogiorno, una carovana di carretti grondanti d’acqua discendono da oltre duemila metri di altitudine verso i centri abitati. Sono carichi di sacchi di neve. 
Dove la prendono, se d’estate sull’intero massiccio dell’Etna non se ne vede traccia? Dalle ‘nivarole’, che sono vere e proprie miniere di neve rese invisibili da una camicia di lava farinosa. Questo materiale vetroso ha un elevato potere isolante del calore, e basta che uno strato di pochi centimetri venga steso alla fine dell’inverno perché questo si conservi per l’intera estate. Il personale dell’Istituto di Vulcanologia dell’Università di Catania ha recentemente scoperto un giacimento vecchio di almeno un secolo!

Un gruppo di "nivaroli" carica i blocchi di ghiaccio
all'interno di sacchi di juta.
In precedenza, le "nivarole" erano state protette dallo scioglimento
coprendole con polvere lavica e sterpi
Un tempo le ‘nivarole’ alimentavano un florido commercio: i velieri trasferivano la neve perfino in Egitto, dove era venduta a prezzi favolosi. 
Ora siamo agli sgoccioli: le ‘nivarole’ si contano sulle punte delle dita ed è probabile che fra qualche anno il ghiaccio e più ancora il frigorifero avranno il definitivo sopravvento. 
I carrettieri che si dedicano alla distribuzione della neve sono però convinti che tale calamità è lontana perché il suo uso nelle case come nei locali pubblici sopravvive più che altro perché quella neve ha un sapore del tutto particolare che la rende adatta ad allungare e rinfrescare i forti vini etnei”.
Infine, il cronista di “Amicizia” descrive i “pirriaturi”, altra categoria di lavoratori etnei che di lì a pochissimi anni sarebbe stata cancellata dalla produzione industriale.

L'obiettivo di Gustavo Tomsich fissa l'immagine
di due "pirriaturi"di blocchi lavici.
Al termine del lavoro di estrazione, i grossi conci venivano rifiniti per essere utilizzati nella costruzione di cortine murarie, strade ed elementi portanti di edifici

“La lava era in passato un materiale molto ricercato, ma è poi divenuto antieconomico perché il suo elevato peso specifico ne rende costoso il trasporto e difficile l’impiego nella moderna edilizia. Si scava la terra sotto il filone di lava compatta, preventivamente puntellato. 
Al momento giusto si tolgono i puntelli e il lastrone si spezza sotto il suo stesso peso. Comincia allora il duro lavoro di squadratura dei blocchi e dele mattonelle, che viene fatto con colpi secchi e precisi di mazza”.
Gesti e capacità manuali – quelle descritte 53 anni fa da Gustavo Tomsich e restituite alla memoria dal suo racconto – che non fanno più parte dell’ambiente etneo.
  

        

  

martedì 16 aprile 2013

I CAVALLI SANFRATELLANI DI SELLERIO

Un branco di cavalli "sanfratellani" nei boschi messinesi
fra San Fratello e Cesarò.
Le fotografie riproposte da ReportageSicilia portano la firma di Enzo Sellerio e corredarono un servizio di Aldo Scimè pubblicato sulla rivista "Sicilia" edita nel settembre del 1962 dall'Assessorato Turismo, Sport e Spettacolo
della Regione Siciliana.
Fotografie e parte del testo di quell'articolo restituiscono alcuni aspetti ormai perduti di vita rurale del periodo nei Nebrodi 

Le fotografie riproposte in questo post da ReportageSicilia portano la firma di Enzo Sellerio e sono tratte da un reportage della rivista “Sicilia” pubblicato nel settembre del 1962.
Sellerio – il cui nome, un anno prima, aveva firmato le immagini di un numero monografico su Palermo della rivista svizzera “Du” – eseguì i suoi scatti fra i boschi delle Caronie, tra Cesarò e San Fratello: i soggetti del fotografo furono i cavalli e puledri definiti “sanfratellani”.

All'epoca del reportage di Sellerio e Scimè,
i cavalli "sanfratellani" erano circa un migliaio.
La loro vita - e quella dei giumentari, loro custodi -
si svolgeva tra boschi di querce e sugheri,
su un'area di circa 15.000 ettari
Il reportage di Sellerio accompagnò un articolo del giornalista Aldo Scimè intitolato “Western a San Fratello”, corredato da un disegno di Aligi Sassu ed ancor oggi ricco di preziose indicazioni sull’allevamento dei cavalli messinesi.
L’interesse del fotografo palermitano e di Scimè nei confronti di questi animali seguì quello di molti altri documentaristi che nell’Italia degli anni Sessanta – in piena epoca di trasformazioni del costume e dell’ambiente – “scoprirono” le residue sopravvivenze di vita equestre allo stato brado: quella dei butteri maremmani, dei cavallini sardi della Giara di Gesturi e, appunto, dei cavalli “sanfratellani”.

Per riconoscere i propri cavalli, i giumentari li dotavano di campane al collo dalla carattertica tonalità.
Il loro intervento era fondamentale soprattutto nella stagione invernale, quando gli animali erano esposti ai rischi del freddo
e necessitavano per questo motivo
di un trasferimento in bassa collina 
Oltre a riproporre le immagini del reportage di Enzo Sellerio, il post ripropone anche i passi salienti del racconto di Aldo Scimè fra boschi, “giumentari” e cavalli: uno spaccato di dura e selvaggia vita nelle Caronie di 50 anni fa.

Proprietari dei cavalli erano numerosi allevatori di San Fratello.
Gli esemplari maschi, all'età di due anni, venivano venduti nelle fiere.
Le cavalle invece erano mantenute per lunghi anni e a volte costituivano
la dote delle ragazze destinate al matrimonio

“Nei grandi boschi delle Caronie fra Cesarò e San Fratello vivono allo stato brado oltre un migliaio di cavalli di razza ‘sanfratellana’.
Sono di mantello generalmente scuro, di fibra robusta, dal forte impianto scheletrico, dalla groppo vasta e solida. Suddivisi in branchi vivono di ciò che il bosco ed il sottobosco offrono loro. E non è raro che d’inverno i giumentari ne trovino qualcuno impietrito dalla neve: ucciso dal freddo.
La selezione naturale fortissima e spietata ha reso perciò robusta la razza ( per quanto di vera e propria razza non si possa ancora parlare ) di questi cavalli, l’ultima famiglia equina, in Europa, che viva ancora allo stato brado.
I boschi di querce e di sugheri sono il loro regno: circa 15.000 ettari che costituivano una volta i feudi dei Cortes e poi dei Pignatelli, ora in massima parte acquistati dagli allevatori di San Fratello che vi lasciano pascolare in libertà i cavalli.
Ma soltanto alle cavalle l’uomo concede, pieno, il privilegio della libertà: i puledri all’età di due anni vengono infatti catturati e lasciano per sempre il branco: saranno venduti nelle fiere di maggio.
Tutti a San Fratello sono allevatori. Ogni famiglia o ogni ‘partito’ ( cioè gruppi di allevatori non consanguinei associati tra di loro ), dispongono di centinaia e centinaia di ettari di bosco, dal monte al fiume Inganno. E non è raro il caso che alla figlia si assegni in dote un branco di scalpitanti cavalle. Lasciata San Fratello, la strada porta su verso i grandi feudi Danaci, San Barbaro, Badetta, Santa Maria. Poi la strada si ferma e si prosegue per impervi sentieri tra boschi e montagne, noti soltanto ai giumentari.
Man mano che si sale, il paesaggio diventa più aspro, più forte e più puro. Finalmente un lontano tremito di zoccoli. Ed ecco i cavalli sparire leggeri per una breve radura e riapparire lontani inseguiti dai giumentari.
Almeno una volta all’anno i branchi vengono circondati e spinti a valle verso una delle cinque stazioni ippiche disseminate nei feudi.
Presi al laccio alla maniera dei cow boys, vengono censiti, marchiati ( ogni proprietario ha un suo marchio ), sottoposti ad una sommaria visita medica. Qui i puledri, ormai adulti, si separano per sempre dalle madri. Il branco ormai accerchiato scende giù verso Mirtoti, una delle cinque stazioni di monta, una casa con un recinto dietro. Qui attende Nagi Lak, un magnifico stallone ungherese di razza Nonius, uno dei sei stalloni importati dall’Ungheria dal colonnello Paolo Marsala, direttore del centro cavalli stalloni di Catania.
Marsala è il padrino dei cavalli, ai quali da il nome ( la lettera iniziale cambia ogni anno ) e un premio in denaro per il proprietario. Ogni cavallo è segnato su un registro anagrafico. Marsala lavora con passione allo scopo di creare una vera razza di cavalli ‘sanfratellani’, nelle cui vene scorre il sangue dei maremmani e dei ‘persano’ ( un comune del salernitano dove i Borboni allevavano i classici cavalli ‘postiglione’ ).
Ora, incrociati con i Nonius ungheresi, che vivono allo stato semibrado, si spera di mettere a punto un tipo di cavallo agricolo, da tiro medio, particolarmente richiesto nelle zone di collina, dove la macchina non può essere utilmente impiegata. A Mirtito finisce una intensa giornata di lavoro.
I giumentari eseguono l’ultima operazione: per ogni branco attaccano al collo di una cavalla ( hanno tutte nomi bellissimi: Gardenia, Ifigenia, Lucciola ) una campana.
Ogni branco ha una campana di tono diverso. Sicchè all’orecchio finissimo dei giumentari è facile, dal diverso tintinnio della campana, riconoscere i branchi e raggiungerli.
I giumentari sono gli invisibili compagni dei cavalli. Spesso, d’inverno, il loro intervento è provvidenziale perché i cavalli, investiti dalla tormenta che batte loro sul muso, sono spinti a salire sempre più su.
Ma ecco accorrere i giumentari e spingerli verso le zone meno fredde di bassa collina: senza il loro intervento sarebbero condannati a morire d’inedia e di freddo.
Quest’anno, ciò non ostante, ne sono morte parecchie di cavalle. Le trovano rigide, in piedi, addossate ad una quercia, o chine nel disperato tentativo di spostare una pietra nella speranza di trovare un po’ d’erba sotto. Una vita dura per uomini e bestie, accomunate dallo stesso destino”.






lunedì 15 aprile 2013

GLI ARTIGIANI DEL CARRO

Il carradore ed incisore di carri Giovanni Raia in una fotografia pubblicata nel saggio di Antonino Buttitta "Il carretto racconta",
edito nel 1982 da Linee d'Arte Giada.
Questa e le altre immaguini tratte dal libro
sono accreditate a Nino e Gabriella Teresi

Il carro siciliano dipinto ed istoriato è entrato purtroppo da decenni nel patrimonio del kitsch isolano: triste eredità di una cultura materiale custodita in passato da alcune botteghe artigiane, soprattutto a Bagheria.
Sul tema del carretto e dei suoi esecutori – carradori, intagliatori, fabbri, incisori, pittori, sellai e maniscalchi – sono stati pubblicati numerosi saggi e libri illustrati.
Una delle opere più belle e ricche di notazioni storiche - lavoro già riproposto da ReportageSicilia - è "Due ruote", volume edito da Eugenio Maria Falcone che raccoglie numerose fotografie del baghererese Paolo Di Salvo.   
In questo post, ReportageSicilia ripropone adesso altre fotografie dedicate all’argomento tratte dal volume “Il carretto racconta”.

Il lavoro di un maestro fabbro

Il libro – oggi reperibile perlopiù nelle biblioteche - venne pubblicato nel 1982 da Linee d’Arte Giada; i testi portano la firma dell’antropologo Antonino Buttitta e le fotografie sono accreditate a Nino e Gabriella Teresi.
Gli uomini ritratti fanno parte di quel mondo ormai scomparso di competenze artigiane in grado di produrre i carri, e riconducibile ai nomi di Giuseppe Sottile, Giovanni Accomando, Peppino Gagliardo, Onofrio Ducato, Paolo Sciortino, Cosimo Scorsone, Emilio Murdolo, i Paladino, gli Alaimo, i Manfù, gli Schirè ed altri ancora.

Giovanni Accomando nella sua bottega di carradore a Bagheria

  
Nel testo, Buttitta scrive fra l’altro che “il processo che porta alla istituzionalizzione e al definitivo affermarsi del costume di scolpire e dipingere il carro, è relativamente lento e si realizza per tappe.
Intorno al terzo decennio dell’Ottocento si hanno i primi segni della nascita dell’uso… Fra i primi a far uso del carretto sono certamente stati i venditori ambulanti.

L'opera del maniscalco
E’ naturale che essi siano stati portati a servirsi di carretti vivacemente colorati per attirare l’attenzione dei clienti. Inoltre quella del carrettiere era un’attività, come ogni altra del resto, esposta a spinte concorrenziali.

Incudine, martello, velocità e precisione
Avere un carretto più bello dei propri concorrenti poteva essere senz’altro utile.
Infine, considerati i suoi usi, il carretto era allora quello che è oggi l’automobile. Un oggetto non solo pratico ma anche mitico attraverso cui affermare la propria ricchezza, il proprio prestigio sociale.

L'opera di due pittori di carri,
Giuseppe Ducato e Francesco Paolo Cardinale

Era insomma uno status symbol attorno a cui si veniva progressivamente creando una mitologia e contestualmente un’arte per celebrarla…”.