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sabato 24 marzo 2012

L'EPOPEA DI FALEROTI E LANZATORI

Una fotografia di Quintilio Di Napoli documenta le fasi della caccia al pescespada, nello Stretto di Messina, nell'estate del 1948.
 A bordo del "luntru", rematori, faleroto e lanzatore inseguono la preda, dando vita ad una caccia dai toni quasi epici.
L'immagine - e le altre riproposte da ReportageSicilia - sono tratte da un reportage pubblicato da Francesco Alliata di Villafranca in 'Le Vie d'Italia' nell'agosto del 1950.
Documentarista e regista, Alliata è l'autore - fra gli altri lavori - di 'Tra Scilla e Cariddi', dedicato proprio alla pesca del pescespada e realizzato nel corso nel reportage riproposto nel post    

“Se la tonnara dà l’impressione di un coro orgiastico, violento ed estenuante, la pesca del pesce spada ha l’aspetto più raffinato e malizioso; e, di fronte alla materialità sanguinosa di quella, troviamo l’astuzia fatta di agguato e di suprema abilità individuale di questa”.
Così, nell’estate del 1948, Francesco Alliata di Villafranca descrisse la differenza tra due tipi di pesca oggi scomparsi dalle acque siciliane; la seconda delle quali – quella del pesce spada, appunto – ai nostri giorni è sicuramente meno conosciuta e ricordata rispetto alle gesta di rais e tonnaroti, fra Sicilia e Calabria.
Proprio a Francesco Alliata di Villafranca – esponente di una storica famiglia nobiliare palermitana e raffinato documentarista del mare – si deve la produzione di “Tra Scilla e Cariddi”, dedicato alla caccia al pescespada.

Nella fotografia di Alliata, "Il 'luntru' è vicino alla preda, il lanciatore in piedi sulla punta afferra l'asta della zaffinera per prepararsi al lancio..."
 La stagione della pesca del pescespada - pratica che già a meta degli anni Cinquanta volgeva al declino - era fissata tra i mesi
di maggio-giugno e luglio-agosto
Realizzato nell’estate del 1948 nelle acque dello Stretto di Messina, il documentario fu una delle preziose produzioni realizzate nel secondo dopo guerra dalla ‘Panarìa Film’ – la casa cinematografica fondata dallo stesso Alliata e da Pietro Moncada, Quintilio Di Napoli e Renzo Avanzo - insieme a “Tonnara”, “Bianche Eolie” ed “Isole di cenere”.
Le parole di Francesco Alliata di Villafranca ricordate all’inizio di questo post sono tratte da un reportage da lui pubblicato nell’agosto del 1950 tra le pagine della rivista mensile del TCI ‘Le Vie d’Italia’.

Uno dei quattro rematori di solito imbarcati a bordo del luntru.
Il loro faticoso compito era quello di inseguire il pescespada e favorire l'azione  del lanzatore,
incaricato di colpire a morte la preda con la zaffinera
Testo e fotografie contenuti in quel periodico raccontavano appunto la realizzazione di “Tra Scilla e Cariddi”, allorchè – come ricorda Alliata – “un mese di vita in comune con i pescatori di pescespada dello Stretto di Messina aprì agli occhi miei ed a quelli dei due amici che erano con me le straordinarie caratteristiche di questa pesca, l’umana poesia del mondo chiuso entro il quale vivono le poche famiglie che si tramandano i suoi segreti e l’indescrivibile abilità di questi giocolieri del mare”

"Dal suo altissimo posto di osservazione, l'antenniere avvista il pescespada a distanza e lo segnala agli uomini dei luntri..."
La caccia al pescespada aveva luogo su una fascia larga dalla costa non più di trecento metri, da Bagnara a Scilla ( costa calabra sul basso Tirreno ) per dieci chilometri e dalla riviera Paradiso a Punta Faro ( sponda siciliana dello Stretto di Messina ) per altri dieci; il periodo di pesca era compreso fra maggio-giugno – quello più favorevole – e tra luglio ed agosto.

Nello scatto di Alliata, le acque dello Stretto di Messina si increspano lungo la rotta delle barche d'appoggio alla pesca dello spada:
la cattura veniva praticata sui versanti siciliani e calabresi, con riti e strumenti già descritti da Plinio nel 220 a.C.
Le attenzioni del documentario si concentrarono dunque sul “luntru”, l’imbarcazione piccola e snella usata per la caccia al pescespada. “Nera esteriormente ed all’interno colorita a tinta unita vivace – scriveva Alliata – ed ancora leggerissima, fortemente appuntita a prua e a poppa, relativamente bassa di bordi, denunzia a prima vista la possibilità di raggiungere una forte velocità”.
Il “luntru” era costruito da artigiani specializzati che si tramandavano le conoscenze tecniche da padre in figlio; a quattro remi – lunghissimi ed elastici – era un’imbarcazione che assicurava velocità e manovrabilità.

"L'antenniere sale per la scala di corda al suo posto di osservazione
sospeso a 25 metri..."
L’equipaggio era composto da 6 persone: quattro rematori, il “faleroto” – colui che avvistava la preda, dall’alto di un piccolo albero di circa due metri e cinquanta – ed il “lanzatore” o “padrone”, cioè il fiocinatore.
“Quest’ultimo – precisava Alliata nel suo reportage – è il personaggio più importante del gruppo. Deve essere dotato in modo eccellente di occhio, equilibrio, scatto, intuito e precisione, in tal misura da potere colpire il pescespada anche a distanza di venti metri, malgrado la posizione malferma ed incomoda”.

"La zaffinera, l'arpione che deve affondare nelle carni del pescespada, è il grande tesoro del lanzatore, che ne controlla frequentemente l'efficienza..."
Nelle mani, il “lanzatore” stringeva la “zaffinera”, cioè l’arpione che doveva affondare nelle carni del pescespada. “Il suo nome – spiegava dettagliatamente Alliata – deriva dall’affinità con uno strumento che si usò nei tempi più remoti per colpire i delfini, descrittoci anche da Omero. E’ di acciaio, lunga venti centimetri ed ha alle sue estremità quattro alette a cerniera che formano un tutt’uno: le due prime più corte, le seconde più lunghe; si chiudono completamente al momento in cui la zaffinera penetra nelle carni del pesce e, per contrario, di colpo si aprono ad ombrello quando questi, ferito, si dibatte. In tal modo si rende impossibile la fuoriuscita della punta che, con le alette aperte, oppone una fierissima resistenza…”

Nella fotografia di Quintilio Di Napoli, il pesce appena arpionato è stato issato sulla felùa per essere pesato
 e portato a terra: una fetta circolare intorno al punto in cui è stato colpito tocca al lanzatore
Nel suo racconto, Alliata distingueva anche le differenza nella caccia al pescespada fra Sicilia e Calabria. “L’equipaggio è composto da un altro uomo, oltre i sei del luntro. E’ questi la vedetta a distanza che segnala per primo la presenza del pescespada. In Calabria, dove altissime scogliere a picco sul mare costituiscono un osservatorio ideale per un vasto specchio di acqua, la vedetta vi si pone in cima e, quando avvista il pesce, lo segnala con lunghe grida e con l’agitare una banderuola bianca, l’”ammattu”. Nello stretto di Messina, invece, non essendoci rocce sul mare, la vedetta si piazza in cima ad una altissima antenna di 20-25 metri posta su una imbarcazione speciale, la “felùa”… Da questa altezza, il pescespada si osserva con chiarezza, perché il suo colore argenteo dà, sotto i raggi del sole, rapidi riflessi e bagliori”.      
Quest’ultima vivida indicazione regala alla pesca del pescespada descritta da Francesco Alliata quel carattere quasi epico presente in tante pagine di letteratura dedicate al rapporto fra pesce e pescatore; e l’epilogo della caccia esalta questo carattere.

Una cartina dell'area di pesca, lungo le coste di Sicilia e Calabria, rispettivamente tra la riviera Paradiso e Punta Faro e Bagnara e Scilla
“Il pescespada, che naturalmente ha tentato di sottrarsi al noioso inseguitore aumentando di velocità o variando il suo percorso ( può anche di dirigersi verso il fondo e, in questo caso, sfugge agevolmente ) è ora a breve distanza dal luntro. Il faleroto annuncia al lanzatore, ‘incìmiti l’asta!!’, e questi si tiene in posizione di pronto: una gamba protesa in avanti sulla punta estrema del luntro, l’asta inclinata verso il basso sostenuta con il braccio sinistro, mentre la mano destra, poggiata sulla sua estremità posteriore, la tiene pronta per la spinta finale. Il faleroto lancia un ultimo urlo, ed è il più concitato di tutti, ‘’a punta ‘u ferru, est’ ( hai il pesce a tiro in direzione dell’asta ) e lo ripete con sovrumana agitazione. Il lanzatore lo avvista subito, dà la direzione solo muovendo l’asta: egli la tiene sempre puntata in direzione del pesce, in modo che i rematori, osservandola, mutino la direzione del luntro. Egli osserva attentamente ogni movimento, al fine di prevedere il più favorevole e cerca di avvicinarsi il più possibile. Quindi prende di mira la testa, che è il punto che può uccidere di colpo il pesce ed evitare il pericolo di perderlo. Quando ritiene giunto il momento, solleva in alto la punta della zaffinera distendendo il braccio sinistro, inarca la schiena gettando le spalle indietro e, mentre tutti si fermano ed i rematori danno stabilità alla barca con i remi, lancia il suo colpo… Se il pesce è colpito, il lanzatore lancia un grido di ringraziamento, ‘San Marcu binirittu!’”.

Una recente fotografia di Francesco Alliata di Villafranca. A lui, nel secondo dopo guerra, si deve la fondazione della Panarìa Film, la casa di produzione che realizzò i primi documentari marini e subacquei in Sicilia
Lo spada colpito tenterà un’inutile fuga nelle profondità del mare, tirandosi dietro per miglia e miglia il luntro. Quando si poserà sul fondo – quasi in un atto di sacra pietà – uno dell’equipaggio segnerà una croce con le dita della mano aperte, su un lato della testa, vicino alla bocca. Il pesce viene issato sulla felùa, dove viene pulito e pesato, una fetta circolare intorno al punto in cui il ferro ha colpito toccherà al lanzatore.
Già qualche anno dopo – nel 1956 – la pesca al pescespada fra Sicilia e Calabria sarà sempre più sporadicamente affidata ai personaggi ed alle attrezzature descritte da Alliata.
I figli dei faleroti e dei lanzatori – un tempo abili nel seguire l’esempio paterno, giocando a colpire piccoli cefali di riva con astine rotte di parapioggia – impareranno altri mestieri. Molti di loro lasceranno lo Stretto di Messina ed i pochi pescespada superstiti, cercando fortuna in città e fabbriche, in luoghi dove non esisteva neppure il mare.
  

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