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sabato 26 marzo 2011

SICILIANDO

"Vegliando e pensando, compresi come si opera l'uscita dalla Sicilia: con la decisione del siciliano di andarne fuori per sempre, di sposare una donna d'altra specie e di aver figli in altra terra.
I figli allora, solo loro, e meglio ancora i figli dei figli, possono dirsi usciti dall'isola"
Piero Chiara, 'Con la faccia per terra', Vallecchi Editore Firenze, 1965

domenica 13 marzo 2011

LEVANZO, "ERTA E BELLISSIMA"

Il paese di Levanzo - la più piccola delle isole trapanesi delle Egadi - in uno scatto realizzato da Flavio Colutta e pubblicato in un reportage della rivista del Touring Club d'Italia  'Le Vie d'Italia', nel febbraio del 1955.
"Fatti pochi passi fuori dall'abitato - si legge nell'articolo - non si vede più nessuno, a volte si ha l'illusione di essere gli unici abitanti della terra". Anni più tardi, il critico d'arte Cesare Brandi avrebbe confermato quelle impressioni, scrivendo che a Levanzo "se si toglie il gruppo di case al piccolo porto, sembra che non ci sia stata orma umana. Ed invece sono stati qui prima che in Val Padana i nostri primi antenati"  
“La vera attrattiva delle Egadi è Levanzo… Non è che uno scoglio erto, bellissimo. La crosta grigia della pietra scopre qua e là le focature come di brace sotto la cenere, filari di fichi d’india e di agavi aggiungono una tinta così sommessa di verde che è appena un tono sopra al grigio della pietra… Le coste di questo scoglio sono varie, piene di motivi inattesi, e c’è anche un faraglione, meno grande di quelli di Capri, ma sempre un bello spuntone di roccia come una piramide sbriciolata…”
Così, nel 1970, il professore Cesare Brandi – fondatore dell’Istituto Centrale del Restauro di Siena e docente di Storia dell’arte medievale e moderna nell’Università di Palermo prima, e poi di Roma – descrisse nell'opera 'Sicilia mia' edita da Sellerio nel 1989 la più piccola fra le isole trapanesi delle Egadi.
Di Levanzo, Brandi sottolineò allora che, “ancor più delle Eolie, se si toglie il gruppo di case al piccolo porto, sembra che non ci sia stata orma umana. Ed invece – notava ancora il celebre critico d’arte, riferendosi alla presenza delle note incisioni e le pitture preistoriche della grotta del Genovese – sono stati prima qui che in Val Padana, i nostri lontanissimi antenati”.
Un simile giudizio si trova espresso in un reportage pubblicato dal mensile del TCI ‘Le Vie d’Italia’, nel febbraio del 1955, nel quale si legge che l’isola – allora collegata a Trapani dal vecchio vapore ‘Lampedusa’, il lunedi, il martedi, il sabato e la domenica - “è forse quella che più risponde all’ideale dell’uomo che cerca il primitivo e la natura. Non ha che trecento abitanti – scriveva l’anonimo articolista – ed in breve si conoscono tutti i lavori e gli orizzonti di questa gente. Anzitutto il lavoro della pesca; poi c’è la pastorizia e le vigne che i Parodi hanno piantato sull’altopiano che sovrasta il paese, e che ci è sembrato l’angolo più ridente dell’isola. C’è qualche bottega per l’acquisto dei generi di prima necessità, ma l’acqua è di cisterna. Fatti pochi passi fuori dall’abitato non si vede più nessuno, a volte si ha l’illusione di essere gli unici abitanti della terra…”.

Il faraglione di Levanzo, lungo la costa S-O dell'isola, ancor oggi regno incontrastato di migliaia di gabbiani.
Nel saggio 'Sicilia mia' edito da Sellerio nel 1989, il critico d'arte Cesare Brandi lo definiva "meno grande di quelli di Capri, ma sempre un bello spuntone di roccia come una piramide sbriciolata"; la fotografia è tratta dal volume 'Sicilia', edito nel 1973 da Edizioni Fotorapidacolor'


Ancora due scatti del paese tratti dal volume 'Sicilia', edito nel 1973 da Edizioni Fotorapidacolor.
Ai nostri giorni, la piccola isola delle Egadi è meta di un fedele gruppo di visitatori; da qualche anno - grazie all'ambientazione di un set televisivo della serie 'Il Commissario Montalbano' - Levanzo ospita un crescente numero di turisti italiani e stranieri, questi ultimi provenienti anche dalla Svezia
Di fatto, ancor oggi Levanzo conserva la stessa aspra e naturale bellezza descritta da Cesare Brandi e dalla rivista del TCI; e pur se l’isola conserva un suo geloso gruppo di estimatori che la frequentano in tutti i mesi dell’anno, da qualche stagione le sue limpide e fredde calette ospitano crescenti gruppetti di bagnanti dai biondi capelli e di lingua scandinava: turisti svedesi, che hanno conosciuto Levanzo grazie ad uno degli episodi televisivi del commissario Montalbano, che in quest’isola ha ospitato uno dei suoi set.

mercoledì 9 marzo 2011

SICILIA DI OGGI

Monte Pellegrino ed il porto di Palermo in una giornata di settembre.
Fotografia di Katia Arrìus per REPORTAGE SICILIA

SICILIA DI IERI

Carretto in una strada di Bagheria, nel palermitano.
La foto, scattata negli anni Settanta da Paolo Di Salvo, è tratta dal suo libro 'Due ruote', edito nel 2007 da Eugenio Maria Falcone Editore

SICILIANDO

"Goethe aveva ragione quando scrisse: 'senza vedere la Sicilia, non ci si può fare un'idea chiara di quello che è l'Italia'. La Sicilia è il modello in scala ridotta dell'Italia per principianti, in cui ogni qualità e ogni difetto nazionale sono esagerati, esasperati e vivacemente colorati"
Luigi Barzini, 'Gli Italiani', Arnoldo Mondadori Editore, 1964 

QUANDO LA CONCA ERA D'ORO

Sopra e sotto, due vedute palermitane di una Conca d'Oro ancora sostanzialmente integra realizzate tra il 1952 ed il 1957 dal fotografo Leonard Van Matt; gli scatti - realizzati dalla zona di Altofonte, verso la piana di Palermo e le verso le campagne di Monreale - sono tratti dall'opera 'La Sicilia Antica', edito da Stringa Editore Genova  


Conca d’Oro: una denominazione territoriale che richiama subito alla memoria Palermo e la Sicilia , diffusasi nella città spagnola del secolo XVI ed oggi consegnata alle memorie di vecchi cronisti o viaggiatori; come l’archeologo e scrittore americano William Agnew Paton, che, nel 1902, poteva descrivere l’”incantevole distesa” di quasi 100 chilometri quadrati di aranceti, ulivi, mandorli, gruppi di agavi, di yucche e di palme.

Sono molte le panoramiche di Palermo pubblicate in libri e saggi; per lo più, si tratta di fotografie scattate dal versante di monte Pellegrino che guarda verso il porto. Una di queste - piuttosto rara perchè a colori e risalente ai primi anni Cinquanta dello scorso secolo - mostra ancora la predominanza delle aree agricole su quelle edificate.
L'immagine - del fotografo Patrice Molinard - è tratta dal volume 'La Sicile', edito in Francia da 'del Duca' per la collana 'Couleurs du Monde' 

Ancora alla fine del secolo XIX, il geografo Fisher paragonava la conca palermitana ad un enorme gabbiano, le cui ampie ali si distendevano – da Est ed Ovest - da Capo Mongerbino a Capo Gallo; la coda – spiegava Fisher - si insinuava tra i monti di Monreale e di Altofonte, mentre la testa sembrava inabissarsi vero il mare.

Una manieristica veduta della Conca d'Oro da Gibilrossa, luogo prediletto di osservazione della distesa di agrumeti, uliveti, mandorleti e vigneti oggi in gran parte cancellati dalla speculazione edilizia. Solo tra il 1953 ed il 1966, Palermo vide aumentare del 125 per cento la superfice edilizia urbana. La foto - a firma TCI - è pubblicata in 'Sicilia', collana 'Attraverso l'Italia', edito dal Touring Club Italiano nel 1933

Sopra e sotto, due scatti della Conca d'Oro di Italo Zannier; il primo è realizzato da Monreale verso capo Zafferano, il secondo dalle pendici di monte Pellegrino verso l'area della piana dei Colli, che da lì a qualche anno sarebbe stata invasa dalle lottizzazioni di viale Strasburgo. Le foto sono stratte dall'opera 'Le Coste d'Italia - La Sicilia', ENI Milano, 1968 
Sino alla metà del Novecento, l’area verde aveva conservato la sua vocazione agricola, secondo una varia distribuzione di piante: vigneti a Pallavicino e Bonagia, uliveti a Tommaso Natale, San Lorenzo e Cardillo, agrumeti a Ciaculli, Bonagia e Falsomiele e colture erbacee a Romagnolo ed Acqua dei Corsari.


Sopra, un'eloquente documento della vertiginosa crescita edilizia urbana di Palermo, negli anni di quello che nelle cronache mafiose è rimasto alla memoria come "il sacco" della città: i classicheggianti volumi del Teatro Massimo, ed, alle spalle, il grattacielo dell'INA, con la sua vicina gemmazione di palazzi.
La fotografia è tratta da 'Le Vie d'Italia' del maggio del 1960, nel periodo in cui lo slogan del sindaco Salvo Lima era  "Palermo è bella, facciamola ancora più bella".
In questa foto, una lottizzazione nel quartiere Malaspina, alla fine degli anni Cinquanta, in un'area che sino a qualche anno prima era dominata dagli aranceti
 Molti decenni più tardi – nel 1960, in piena epoca del così detto ‘sacco edilizio’ di Palermo, che avrebbe cancellato gran parte di quella ricchezza floreale, dalla Piana dei Colli a Bagheria, da Monreale a Ciaculli – Guido Di Stefano avrebbe scritto che la conca “è un organismo completo e indissociabile, una vera e propria unità territoriale e comunitaria che deve essere tenuta presente sia negli studi sia nella progettazione urbanistica”: un giudizio – quello di Di Stefano –incredibilmente miope dello scempio ambientale e paesaggistico allora in atto, complice la colata di cemento che negli anni Sessanta e Settanta mutò volto al territorio palermitano: quella selvaggia speculazione edilizia che a Palermo, solo fra il 1953 ed il 1966, fece aumentare del 125 per cento la superfice edilizia urbana. 

L'area degli impianti sportivi, nella zona del Parco della Favorita, in una Palermo in cui il verde della Conca d'Oro spaziava sino alle falde del monte Pellegrino. Da sinistra verso destra, lo stadio di atletica delle Palme, l'ex stadio di calcio 'la Favorita' - oggi 'Renzo Barbera' - e l'ippodromo. La scatto è di Fotocielo ed è stato pubblicato in 'Sicilia' collana 'Attraverso l'Italia' , edito dal Touring Club Italiano nel 1961 
La stima di quanto sia stato costruito è ardua: fonti della Ripartizione Urbanistica del Comune valutano tuttavia in 300 milioni i metri cubi di edifici residenziali edificati a Palermo dal dopoguerra sino agli anni Novanta dello scorso secolo.

L'edilizia urbana all'assalto della Conca d'Oro, nell'area che dal centro di Palermo guarda verso le pendici di Gibilrossa: la fotografia, realizzata da Fotocielo, è pubblicata in 'Sicilia' collana 'Attraverso l'Italia' , edito dal Touring Club Italiano nel 1961

Sopra, il progetto di lottizzazione del quartiere di Borgo Nuovo, nell'area della Conca d'Oro denominata Passo di Rigano.
Il piano regolatore di Palermo del 1962 diede il via ad un'imponente opera di cementificazione della città, abbandonando ogni ipotesi di ristrutturazione del centro storico, gravemente danneggiato dalle bombe del 1943.
La speculazione edilizia di quegli anni, affidata dalla politica a costruttori legati alla mafia, non ha tenuto conto della tutela del grande patrimonio ambientale rappresentato dalle vecchie zone agricole suburbane.
Sotto, una foto del boom edilizio palermitano realizzata dal fotografo Josip Ciganovic  


La costruzione di nuovi edifici, da un lato, venne incontro dall’esigenza di recuperare i 70.000 vani del centro storico distrutti dai bombardamenti del 1943; dall’altro, i nuovi palazzi costruiti nelle periferie ebbero la funzione di accogliere l’ingente massa di siciliani che trovò lavoro nella città divenuta capitale dell’immensa macchina burocratica della Regione Siciliana. A compiere lo scempio edilizio che decretò la perdita della Conca d’Oro, ci pensarono materialmente i costruttori legati alle famiglie mafiose ed i politici, che dalla mafia ottennero i voti per guidare le amministrazioni locali, a cominciare dal Comune; agli atti della Commissione Parlamentare Antimafia rimangono numerose testimonianze sul numero record di licenze edilizie concesse da Salvo Lima – autore dello slogan edilizio-elettorale ‘Palermo è bella, facciamola ancora più bella’ - e da Vito Ciancimino.

L'"ammasso assurdo di case" costruito nell'area di quella che un tempo ormai lontano poteva chiamarsi Conca d'Oro, secondo la definizione data nel 1982 dalla scrittrice Camilla Cederna; la fotografia è ancora una volta di Italo Zannier
Nel 1982, gli effetti di una simile politica urbanistica fecero scrivere a Camilla Cederna che il capoluogo dell’isola era diventato “un ammasso assurdo di case, una attaccata all’altra, di tutte le forme e colori…una cancrena che si è mangiata la capitale: una città così sfigurata non può che essere una città malata…”.
Per comprendere il valore della perdita della Conca d’Oro, infine, si può ancor oggi sintetizzare quanto scrisse nove anni prima della Cederna nel saggio ‘Il paesaggio e l’estetica’ il filosofo nisseno Rosario Assunto: di quel paesaggio – considerò Assunto - “non si può non sentire il rimpianto, come di una luce che si sia spenta sul mondo”.